Resistenti
La grande sete di Taranto: dall'ex Ilva alle case, la vera emergenza è quella idrica
Dissalatore, pale eoliche, la rete che serve privati, campi, industrie e l'acciaieria. La carenza di acqua è una delle piaghe della città
Più simili ad una classe in gita scolastica che ad un gruppo d’inchiesta, una ventina di noi si ammassa sulle rive nascoste del fiume Tara, alimentato da polle perenni, prima di mescolarsi con il mar Ionio. Tra le alghe galleggia ancora un piatto dalla celebrazione della Madonna del Fiume, quando, all’alba, si recita il rosario. Il sole risplende ovunque, l’acqua è limpida, abbracciata dalle canne di bambù e dal giunco, dal santuario e da qualche chiosco informale. Un tonfo, cadenzato, di chi, con una rincorsa, si tuffa in acqua, scandisce il tempo. Alle nostre spalle, come un presagio permanente, ci avviluppano i 15 chilometri quadrati di acciaieria, l’ex Ilva, e le torce della raffineria Eni.
Al concludersi delle giornate della Convocatoria Ecologista non si poteva che confluire qui: nei pressi della foce del fiume Tara dove si aspetta l’esito della gara d’appalto per il più grande dissalatore d’Italia. Alla foce, guardinghe, attendono le pale eoliche offshore. Il progetto del dissalatore è stato approvato a marzo dal Consiglio di amministrazione di Acquedotto Pugliese e dovrebbe partire nel 2026 con un investimento previsto di 100 milioni di euro a valere in parte sui fondi del Pnrr.
Il dissalatore è promosso per il suo impatto civile. Nello specifico per il fabbisogno di acqua potabile di 400 mila persone in vista dell’emergenza idrica. Tuttavia proprio l’Eipli, l’Ente irrigazione e sviluppo, sta perfezionando con la Regione Puglia il rinnovo della concessione concordando, durante l’intero anno, un uso plurimo, irriguo ed industriale, per una portata massima di 1.100 litri secondo con una ripartizione di 300 l/s per il primo e 800 l/s per il secondo.
L’ormai ex Ilva, oggi ArcelorMittal, per il raffreddamento dei suoi impianti e per necessità di processo, utilizza ingenti quantità di acque prelevate da varie fonti, tra cui il Mar Piccolo e il fiume Tara. Di contro, le acque reflue trattate dai depuratori Gennarini e Bellavista vengono scaricate a mare. Nella regione, come evidenziato dall’Arpa Puglia, il fenomeno del depauperamento delle risorse idriche sotterranee assume proporzioni preoccupanti.
Se durante i mesi estivi fosse necessario utilizzare tutta la portata concessa per far fronte agli usi irrigui e, contemporaneamente, l’ex Ilva chiedesse di utilizzare tutta la portata disponibile a fini industriali, il prelievo totale dal Tara, considerando i 1000 l/s da destinare al dissalatore, eccederebbe complessivamente i 2mila l/s, superando così il limite del 33% (giudizio di idoneità asserito dallo studio Cnr-Irsa). Persino a questo fiume sacro e mitologico, viene imposto il destino del sacrificio.
Nel quartiere Tamburi, la pioggia scandiva il tempo battendo sulle centinaia di masserie ora spazzate via dalla promessa di sviluppo, dall’arbitrio di una civilizzazione che non ha niente a che spartire con queste comunità. Rinnovate e ri-narrate spade di Damocle sferragliano all’unisono su questo cielo. Alessandro Leogrande, nella premessa di “Fumo sulla città” scrive che «ci sono città che diventano specchio del Paese, delle sue trasformazioni, dei suoi nodi irrisolti, dei suoi fallimenti, delle sue cadute, delle sue ansie di riscatto. Taranto è una di queste: singolare laboratorio urbano, stretto tra le ciminiere dell’Ilva e il mare che si apre davanti ai suoi palazzi, emblema dello sviluppo novecentesco e del suo rifluire verso una crisi profonda».