Rimandata per due volte, ecco infine la conferenza stampa: quarantadue domande, tre ore, unico futuro il presidenzialismo (e un voto pronto pro Ursula). Guai a parlare di «conduzione familiare»: semmai si tratta di sovranismo assoluto

Tre ore e ventidue minuti, quarantadue domande, un sospiro captato dal microfono («Sto a mori’, raga’»), l’annuncio largamente previsto della sospensione del deputato Emanuele Pozzolo, il preannuncio della sua candidatura alle Europee («ma non ho ancora deciso»). La conferma che quella presidenziale è per il suo governo la madre di tutte le riforme. Le parole su Arianna Meloni, la peggior difesa di una sorella che la storia ricordi: «È una militante da trent’anni, la potevo mettere in una partecipata come si usa fare, ho preferito metterla nel mio partito», dice la premier negando la «conduzione familiare» del suo partito come farebbe il più convinto dei sovrani assoluti, a dimostrazione che – mutuando l’adagio - più temibile del patriarcato in sé ci può essere solo il patriarcato in me.

 

Nell’era di Giorgia Meloni la conferenza stampa di fine anno, tramutata in conferenza stampa di inizio anno per via delle otoliti, è una prova di resistenza ben più di quanto sia un esercizio di politica o di giornalismo. Era stato così anche a fine 2022, ma quest’anno è peggio. La vera notizia, come nota alla fine il re dei paparazzi Umberto Pizzi, 86 anni, con sereno cinismo, è nella corsa al bagno che la premier è costretta a fare, quando ormai mancano tre domande. È la prima volta che accade nella storia, ma non può fare altrimenti. «Per forza: ha bevuto almeno due bottigliette d’acqua».

 

Prima del gran finale, un elemento balza agli occhi: il deserto, grigio. Non c’è un raggio di sole, l’oasi di una visione politica, e nemmeno alla fine qualcuno che ne chieda conto davvero. Una distesa piatta dove non c’è futuro, a meno di non voler vedere tutto il futuro dell’Italia nell’elezione diretta del premier, il che appare un po' poco persino per chi di politica vive. Ci sono singole questioni, più o meno grandi, ci sono polemiche, c’è un po’ di propaganda, molti proclami contro la sinistra come se fosse quella l’area di governo (citato l'immancabile ex premier Paolo Gentiloni, stavolta per la colpa di aver nominato Marcello Degni alla Corte dei conti), c’è qualche blanda ammissione di difficoltà (ad esempio sull’immigrazione e sulla strage di Cutro, definito il «il momento peggiore dell’anno»). Nella sterminata varietà delle domande, che vanno dalle pensioni all’islamizzazione di alcuni comuni italiani, dalla Rai ai paradisi fiscali, dal ruolo di Mario Draghi a quello di Marine Le Pen ma anche di Giuliano Amato, dalla via della seta al generale Vannacci, Meloni non è in grado di offrire obiettivi di vasto respiro. Richiesta di fornirne tre per i prossimi sei mesi – nelle interrogazioni a scuola sarebbe praticamente la domanda a piacere - ne indica uno che non farà (la riforma della giustizia), uno che deve fare per forza (il Pnrr) e uno che appare per lo meno poco ambizioso, buono per tutte le stagioni (le borse di studio per gli studenti meritevoli).

 

L’unico vero brivido arriva quando Gaia Tortora, La7, estrae dall’archivio quella frase «Non sono ricattabile», che Meloni pronunciò nei giorni in cui lottava con Silvio Berlusconi per formare il governo, e il Cavaliere aveva ricordato che il suo compagno lavorava a Mediaset. Una frase che è tornata in auge, come è ovvio, proprio nei giorni dell’affaire Giambruno. Ecco cosa dice adesso la premier, richiesta di spiegare il senso di quel “non ricattabile”: «Penso qualcuno in questa nazione abbia pensato di poter dare le carte, in alcuni casi. L’ho visto accadere, non mi chieda di essere più precisa. Vedo degli attacchi, vedo anche chi pensa che ti spaventerai se non fai quello che spera o che vuole. Non sono una persona che si spaventa facilmente, credo che lo stiano capendo in parecchi, preferisco cento volte andare a casa». Parole pesanti, che richiederebbero chiarimenti: però Meloni rifiuta di fornirne ulteriori. Anzi quando a chiederglieli è Tommaso Ciriaco, Repubblica, cerca di ammorbidire i toni, di dire che in fondo è normale provarci, ma che con lei il tentativo di condizionamento non riesce.

 

Il futuro è dunque nel presidenzialismo, per il quale Meloni è pronta ad affrontare anche il referendum senza timore di fare la fine di Renzi: «Perché non sarà un voto su di me, che sono il presente, ma su quello che accadrà dopo». Lei, invece, si farà giudicare solo da un voto politico.

 

Quanto al futuro più prossimo, cioè le Europee, arriva una mezza notizia, nascosta tra le pieghe. Meloni infatti fa capire di essere disponibile a votare una commissione presieduta da Ursula von der Leyen. E lo fa a modo suo: negando di «essere mai disposta a fare una maggioranza stabile in Parlamento europeo con la sinistra». Il che, come spiega, non preclude di votare per una commissione presieduta dall’attuale presidente, perché «quando si fa un accordo, e ciascun governo nomina il suo commissario, poi i partiti di governo tendono a favorire la nascita di quella commissione che è frutto di un accordo, ma questa non è una maggioranza», dice Meloni citando come esempio il Pis polacco. Insomma l’ambiguità alla quale la premier ci ha ormai abituato. Resta da capire se anche in Europa gliela consentiranno.