All'esercito di Kiev non arrivano soltanto vecchi carri armati e potenti missili regalati dalle Forza Armate, ma anche materiale bellico (soprattutto munizioni) acquistato da fabbriche che operano nel nostro Paese. Tra dilemmi giuridici e grosse commesse nell'Europa dell'Est. La prima parte dell'inchiesta che trovate integrale in edicola

Il mondo veste armi made in Italy. Le guerre hanno piegato ogni ritrosia geopolitica, cavillo normativo, titubanza etica. Il mercato è in fermento, le apprezza, le prenota, le baratta, ne fa incetta. Quando le armi della politica tacciono, vale soltanto la politica delle armi. Per le relazioni con Ucraina, Israele, Ungheria, Azerbaigian, Arabia Saudita. Ovunque. Con chiunque. Spesso con forzature normative. Questo racconta l’inchiesta esclusiva de L’Espresso basata su documenti riservati e fonti istituzionali. Ecco la prima puntata in versione estesa. Sul numero da oggi in edicola e sull'app l'intero servizio

 

Il governo di Kiev è un nuovo cliente per l’industria bellica italiana. Il secondo in assoluto con acquisti per 417 milioni di euro nel 2023, soprattutto in munizioni di vario tipo e sistemi di difesa. Per un lieve scarto, il primo cliente è la Francia con 465 milioni. Quest’anno promette il sorpasso. Le analisi dei dati non mentono. Kiev è un nuovo cliente con le anomalie giuridiche che ciò comporta. Parliamo di armi vendute da imprese con sede in Italia, non regalate dal ministero della Difesa.

 

Com’è noto Roma ha aderito alla coalizione internazionale che «cede» (non «vende») forniture militari a Kiev dopo l’offensiva di Mosca nella notte del 24 febbraio 2022. La differenza fra «cedere» e «vendere» è sostanziale. La «cessione» è consentita da un decreto che il governo di Mario Draghi ha varato, e il governo di Giorgia Meloni ha prorogato più volte, per derogare altre leggi, per esempio la 185 del 1990 che vieta le «esportazioni e il transito di materiale di armamento verso Paesi in stato di conflitto». 

 

I decreti Draghi e Meloni hanno allestito la cornice giuridica per spedire con otto singoli provvedimenti ministeriali – cinque a firma di Lorenzo Guerini (ministro della Difesa con Draghi) e tre a firma di Guido Crosetto (ministro della Difesa con Meloni) – aiuti militari a Kiev con la formula di «cessione non onerosa» attingendo dalle riserve delle forze armate. Il valore stimato – gli elenchi sono secretati – è di 2 miliardi di euro inclusi i costi per la logistica che rappresentano il dieci per cento. Anche per le vendite ci vorrebbe una apposita legge. A oggi non esiste. Eppure le vendite a Kiev hanno raggiunto 417 milioni di euro nel 2023. Erano 3,8 milioni l'anno prima. Nessuno si è preoccupato di informare il Parlamento. Per una fonte di governo il tema giuridico è superfluo: «Ci sono gli accordi con gli alleati europei e atlantici che determinano la nostra politica estera». 

 

Non è superfluo, invece, ricostruire l’origine di queste commesse per 417 milioni di euro che riguardano il governo di Kiev e che non rientrano negli aiuti che, per definizione, sono gratuiti. Non si tratta di triangolazioni con Paesi terzi, ma di rapporti commerciali diretti con passaggi tramite le dogane italiane.

 

La constatazione è che l’Italia è diventata il polverificio della resistenza ucraina. Il motivo è semplice: qui la produzione di Rheinmetall è incessante. Rheinmetall è una multinazionale tedesca presente in mezza Europa e operativa in diversi settori e controlla l’ex azienda italiana Rwm, la fabbrica di bombe. Amministrazione a Ghedi in provincia di Brescia, stabilimenti a Domusnovas in Sardegna, Rwm dispone della merce più ambita: proiettili di artiglieria da 155 millimetri, ordigni pesanti per l’aviazione.

 

Per le bombe inviate negli Emirati Arabia Uniti e in Arabia Saudita e poi usate nella guerra civile yemenita, Rmw fu contestata da organizzazioni non governative e associazioni per i diritti umani finché il governo gialloverde di Giuseppe Conte non revocò i contratti. Il veto a emiratini e sauditi è caduto definitivamente col governo Meloni. 

 

Il fatturato italiano di Rheinmetall in generale e di Rwm in particolare è inarrestabile per la soddisfazione dei suoi azionisti. Rheinmetall ha assommato 287 milioni di euro lo scorso anno, mentre Rwm è schizzata da 46 a 613 milioni. Il gruppo tedesco ha raccolto 900 milioni di euro di ricavi in Italia. I meriti sono della guerra. E dei fantasmi che le danzano attorno. L'Italia ha prenotato proprio da Rheinmetall i carri armati Leopard per oltre 8,2 miliardi di euro, una metà è già stanziata, l'altra è una cambiale per i prossimi governi. È comunque un progetto sontuoso che dovrebbe coinvolgere le italiane Leonardo e Iveco Defense (la proprietà è la Exor della famiglia Agnelli/Elkann).

 

Le «esportazioni definitive» in Ucraina, legate alle commesse autorizzate per 417 milioni di euro che in buona parte ha finanziato la stessa Germania, sono ad appannaggio di Rheinmetall per 107 milioni; di Meccanica per l’Elettronica specializzata in munizioni controcarro per 41 milioni; di Leonardo (ex Finmeccanica) per 19 milioni; di Rwm per 3,8 milioni con incrementi previsti nel 2024. 

 

Per il sostegno militare a Kiev, il governo tedesco aveva ordinato a Rheinmetall una coppia di sistemi di difesa aerea Skynex per 182 milioni di euro in totale. Le singole batterie, fondamentali per abbattere i razzi  e i droni russi, hanno quattro cannoni in torrette automatizzate capaci di tirare mille colpi al minuto su obiettivi a 4 chilometri di distanza. Skynex era destinato agli stabilimenti svizzeri che lo hanno sviluppato, ma il governo elvetico si è opposto e dunque i tedeschi hanno sfruttato la sede del gruppo a Roma. Il programma del governo tedesco da 400 milioni di euro in munizioni da mortaio affidato a Rheinmetall coinvolgerà anche gli impianti italiani. Quello sardo di Rwm. Le cronache melliflue hanno esaltato Rwm perché ha alzato il numero di dipendenti a Domusnovas da 300 a 480. Con 613 milioni incassati in un anno potrebbe fare molto di più. Sono pur sempre maestri nel calibrare le cose.

 

Praga & sorelle. S’è detto che il mondo veste armi made in Italy. Lì dove la minaccia è permanente, in quel confine europeo orientale che la Nato ha integrato, la richiesta è maggiore. La Repubblica Ceca ne ha prese, di armi italiane, per l’Ucraina e per sé stessa con 96 milioni di euro. Erano appena un decimo nel 2022. La vicina Slovacchia ha più che raddoppiato da 37 a 91 milioni. Erano 20 mila euro alla vigilia della guerra. Adesso questo patrimonio è capitato in dote al presidente Robert Fico, che ha vinto le elezioni fermando i soccorsi militari a Kiev e contende all'ungherese Viktor Orban il titolo di europeo più filorusso nonché estimatore di Vladimir Putin. La baltica Lituania, infine, ha sborsato decine di milioni di euro in munizione. Certo, precauzioni necessarie per scoraggiare Mosca. E anche per evitare cali di tensione. 

 

(1. continua)


Leggi la seconda parte: «Le consegne di armi italiane a Israele non si sono fermate»: il documento ufficiale smentisce il governo
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