Per l'ucraina Oleksandra Romantsova, premio Nobel per la pace nel 2022, servono organi internazionali per contrastare la propaganda. Perché quello che succede in Russia potrebbe accadere ovunque

Sacrificare i diritti umani sull’altare della sicurezza è il patto che Vladimir Putin ha stretto con la Federazione Russa 25 anni fa. «Perseguiteremo i terroristi dappertutto. Se li beccheremo al cesso li ammazzeremo lì», aveva detto nel 1999, poco prima di candidarsi come presidente, in riferimento agli attacchi terroristici nelle città di Bujnaksk, Mosca e Volgodonsk che hanno portato alla seconda guerra cecena.

Così oggi mostrare al mondo i volti tumefatti, i corpi contusi e mutilati dei presunti colpevoli dell’attentato al Crocus City Hall di Mosca, «è il segno della violenza che è entrata a fare parte della cultura russa da anni. Che non viene più neanche nascosta. Il fatto che chi la commette ne vada orgoglioso dimostra che è diventata uno standard morale normale. Non vogliamo che accada anche qui».

A parlare è Oleksandra Romantsova, ucraina, 38 anni, difensora dei diritti umani così tanto da essere insignita del Premio Nobel per la Pace nel 2022 con l’ong per cui lavora dal 2014, il Center for Civil Liberties, assieme all’organizzazione russa Memorial e all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, «non solo per aver documentato i crimini di guerra commessi dalla Russia nei territori occupati dell’Ucraina ma per aver dimostrato quanto le violazioni dei diritti umani siano sistematiche, armi politiche utilizzate da Putin per vincere, non casi isolati», spiega con l’obiettivo di evidenziare l’importanza di avere meccanismi internazionali per giudicare che cosa è un crimine e cosa no. 

«Perché ogni guerra è una tragedia ma non tutto quello che succede è illecito. Documentare in maniera professionale i crimini contro l’umanità serve al mondo intero per contrastare la propaganda e le notizie false», chiarisce la direttrice esecutiva del Centro per le Libertà Civili di Kiev che il prossimo 11 aprile sarà in Italia, ospite della XVII edizione del Pordenone Docs Fest, per descrivere l’importanza di lavorare sul campo, di toccare la realtà con mano, di parlare con i testimoni. E per ricordare che non è con l’invasione su larga scala che sono iniziate le vessazioni verso il popolo ucraino, come testimonia anche la proiezione che seguirà il suo incontro del film The Kyiv Files di Walter Stokman, in collaborazione con il Biografilm.  

«Sono stata in Donbass e in Crimea nel 2014. Ho visto con i miei occhi il cosiddetto referendum con cui la penisola è stata annessa alla Russia. Sono andata sulla linea del fronte, ho parlato con chi è stato imprigionato illegalmente. Quando sono tornata ho iniziato la psicoterapia. Perché non è facile avere a che fare con tutto questo», racconta lasciando che i silenzi rallentino il ritmo della conversazione.

 

L’assegnazione del Premio Nobel come ha cambiato il suo lavoro?
«È cambiato il livello, non il lavoro. Chi sceglie di difendere i diritti umani ha a che fare con una questione enorme ma non ha un mandato, non è eletto da nessuno. Così il Nobel ci ha permesso di raggiungere una posizione speciale: abbiamo parlato con le persone di tutto il mondo e con i decisori politici. Perché documentare i crimini che accadono in Ucraina non è importante solo per noi, sono violazioni del diritto internazionale che accadono ovunque, evitarle significa proteggere la democrazia. Se guardiamo alla macchina della propaganda russa ci rendiamo conto di come milioni di persone finiscano per credere a ogni messaggio che Putin inserisce all’interno del meccanismo. Lo vedo anche con i miei parenti che vivono lì: credono più a quello che dice la tv che alle mie parole. Questo è molto pericoloso, un problema grande che può ripetersi in ogni Paese. Ecco perché è fondamentale costruire dei sistemi internazionali che ci tutelino».

 

Il 22 marzo c’è stato il terribile attacco al Crocus City Hall. Come ha reagito quando ha sentito la notizia? E come ha reagito la società ucraina?
«È stato difficile reagire appena saputo dell’attentato a Mosca. Per prima cosa perché eravamo da giorni sotto l’attacco dei missili russi: è complicato reagire quando la tua casa va a fuoco. E poi perché per la popolazione ucraina è arduo provare ancora emozioni. Siamo stanchi. Abbiamo capito subito che è stata una tragedia, nessuno è stato felice, preferiremmo essere normali vicini con la Russia, avere relazioni, fare business, invece di combattere per difenderci. In molti, però, si sono anche preoccupati. Visto che l’assenza di indagini indipendenti per chiarire che cosa è successo porta al proliferare della disinformazione, di teorie che non hanno prove. Tra cui anche quelle che vedono l’Ucraina coinvolta. Torturare i presunti colpevoli, ad esempio, è risaputo che conduce a confessioni anche false pur di fermare le sevizie».

 

Che cosa legge nei tentativi di Putin di scaricare le responsabilità sull’Ucraina?
«Penso che quanto dice Putin sia rivolto alla Federazione non agli ucraini: sta manipolando l’opinione pubblica utilizzando quello che è successo per giustificare gli attacchi più intensi. Ma aggressioni come quelle dei giorni scorsi, alle infrastrutture ad esempio, ci sono già state tante volte negli ultimi due anni. Analizzando i messaggi di Putin nel tempo si vede che non sono coerenti, sono propaganda portata avanti per non perdere il supporto della popolazione».