Il minuetto del dualismo tra Elly Schlein e Giuseppe Conte non risolve il nodo della selezione della rappresentanza

Hanno molto, tantissimo, da farsi perdonare tutti i protagonisti di questa riedizione della questione morale, poggiata sugli esiti delle inchieste intorno alla compravendita di voti tra Bari, l’hinterland e Torino.

 

Il Pd di Elly Schlein ha inseguito con tenacia e una elevata dose di autolesionismo le ragioni dell’alleanza con un Movimento 5S, riottoso al punto da utilizzare con cinismo l’intransigenza per mettere all’angolo il partner. La compagine di Giuseppe Conte è attraversata dalla febbrile ambizione del leader di lanciare un’Opa su tutto il fronte, fino a spingersi a sfasciare ogni cosa pur di spuntarla, per poi magari ricostruire, ma da posizioni di forza. L’esito delle elezioni abruzzesi, l’andamento della vigilia del voto in Basilicata, il deragliamento sul capoluogo pugliese, il braccio di ferro piemontese, sono lì a raccontare macerie e disastri annunciati.

 

Il dualismo Schlein-Conte, la leadership costantemente a rischio della prima, alle prese con liste europee da incubo, l’affidabilità volatile del secondo davanti a un movimento bifronte, è però tutto dentro al minuetto dei partiti, ai riti e ai non sempre onorevoli accordi. Così non si galvanizza l’elettorato, lo si delude e lo si respinge. E certo non si porta a votare chi vive con orrore e/o indifferenza la danza macabra di una politica ridotta a sterile contesa. Si rimane lontani da chi per strada, nelle Università, davanti alle fabbriche chiuse, negli ospedali al collasso, sulle biciclette e nei campi del nuovo bracciantato, pretende di essere rappresentato. Non si offre una prospettiva, un’agenda di valori, autenticamente alternativa a quella delle forze di governo, impegnate in una scriteriata rincorsa da destra becera, indifferente ai diritti, alla giustizia, al welfare, all’ambiente, in definitiva al futuro di questo Paese.

 

L’opposizione, avvitata su sé stessa, guerreggia all’interno e, a giorni alterni, la sua galassia di mezzo strizza l’occhio all’avversario alla ricerca di fallimentari geometrie alternative.

 

Dentro al Pd, formazione composita in cui convivono tante anime e prevalgono spinte riformiste e moderatismo cattolico - i geni originari - non si è affrontata davvero la questione delle classi dirigenti. La si è confusa con la cooptazione, con la spasmodica ricerca di simboli a cui affidare una sorta di redenzione per grazia ricevuta.

 

Quando l’icona si fa governo di territori, non basta più, se davvero mai è stata utile solo l’immagine. Occorrono prassi e buone regole. Sapendo che non c’è partito immune dalla contaminazione di mafie e potentati. Semplicemente perché, lo insegna la sanguinosa storia del Paese, cosche e capibastone si strusciano con il potere, lo coltivano, lo blandiscono e lo ricattano. La formazione del consenso è il grado zero in questa marcia di avvicinamento alla rappresentanza. E la manovra su pacchetti di voti, se non di tessere, tratteggia la capacità di offerta al banco del cedimento. Chi è duttile, e le mafie lo sono, è lesto a spostarsi di fronte. Per questo non può essere tutta una questione di inchieste, arresti, avvisi di garanzia, carichi pendenti, né di pur utili codici etici, ma solo di politica. Non ci si può nascondere dietro qualunque pezzo di carta giudiziaria per far politica.

 

Una classe dirigente costruita nella militanza e attraverso un percorso fatto di studio, impegno e legittimazione, semplicemente sceglie. E pratica a viso aperto il discrimine dell’inopportunità: non vieni con me perché sei impresentabile, non ti candido perché fai solo affari, non prendo i tuoi voti perché puzzano di compromesso. Il Pd faccia i conti con una cosa del genere, poi a testa alta chieda all’alleato e alle forze di governo di dimostrare di saper - e aver saputo - fare altrettanto.