Il caso
Europee, altro che parità di genere: le candidature di Meloni e Schlein tagliano fuori altre donne
Per la legge elettorale europea nelle liste non possono esserci oltre la metà di candidati dello stesso sesso: scegliere una capolista equivale a eleggere un’eurodeputata in meno
Due donne in più, fanno due donne in meno. Questa l’aritmetica designata dalla legislazione elettorale europea che per dare, toglie. Sì perché le candidature della presidente del consiglio Giorgia Meloni - anzi per l’occasione sarà solo “Giorgia” - e quella della segretaria Pd Elly Schlein tolgono posto ad altre donne che, a differenza loro, avrebbero potuto sedersi a Strasburgo.
Stando all’attuale disciplina del Parlamento europeo, approvata dieci anni fa, le liste non possono avere oltre la metà di candidati dello stesso sesso. Vien da sé che a “stroncare” altre candidature femminili contribuisca anche l’ordine di presentazione delle liste. In particolare, a fare la differenza sono i primi due nomi, che devono appartenere a persone di genere diverso. Una sorta di legge del taglione in un'equazione che si configura più o meno così: più donne, vuol dire anche meno donne. E scegliere i nomi di Meloni e Schlein come capilista equivale, “matematicamente”, a tagliare fuori altre donne. Quando l’8 e il 9 giugno si andrà nei seggi, l’elettorato sarà chiamato a scegliere candidati di sesso diverso «non solo nel caso di tre preferenze, ma anche nel caso di due», pena l'annullamento della seconda e della terza preferenza. A dirlo è la legge n.65 del 2014, una legge che ha trovato applicazione per la prima volta nel maggio del 2019. Ma chi li ha tre nomi in testa? E soprattutto, chi arriva alle urne con in mente candidati alternati? Quale che sia la bandiera politica cucita al petto è chiaro, da entrambe le parti le donne dovranno faticare di più.
Una caccia alla preferenza quella della premier che, candidandosi come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni, strizza l'occhio al suo elettorato e tenta di sondare il terreno. Poi, bontà d'animo, non appena eletta rinuncerà al ruolo di eurodeputata, lasciando il posto al primo dei suoi fratelli candidato e non eletto. Se da una parte «scrivete solo "Giorgia"» è animata dalla volontà di «chiedere agli italiani se sono soddisfatti del lavoro che stiamo facendo in Italia e del lavoro che stiamo facendo in Europa»; per la leader del Pd le cose stanno un po' diversamente. A lei infatti l'avrebbe chiesto direttamente il partito, «per portare un valore aggiunto». Ma alla fin fine lo sa anche lei, «il mio posto è qua, per contrastare la Meloni». A nulla sono servite le suppliche delle 26 esponenti Dem che, lo scorso gennaio, hanno chiesto Schlein di non candidarsi e ammonirono: «Non possiamo correre il rischio di portare meno donne nel Parlamento europeo proprio quando alla guida del Pd c’è una donna e una donna femminista». Bastian contrario. Non solo ha fatto orecchie da mercante con Romano Prodi, ma non ha dato retta nemmeno alle compagne, la cui profezia - forse - un po' si è avverata e Schlein ha davvero rincorso quel «leaderismo della destra di Giorgia» tanto ripugnato.
Eppure, a partire dal 1993 di strada per garantire la rappresentanza di genere se n’è fatta. Secondo i dati più recenti, le eurodeputate sono passate da una percentuale del 16.6 per cento nel 1979 al 39.8 per cento nel febbraio di quest’anno. Ad oggi la rappresentanza femminile a Strasburgo supera di gran lunga quella nei parlamenti nazionali, sia a livello europeo che mondiale. In particolare, le politiche italiane rappresentano il 41 per cento degli eletti italiani, in linea con la media europea. E chissà dopo giugno che numeri ci saranno prima del simbolo della percentuale.