I recenti casi della tv pubblica mostrano quanto i tagli alla vecchia maniera siano assai pù numerosi e preoccupanti di presente limitazioni dovute al "politicamente corretto"

A ottobre 2009, José Saramago viene intervistato da Serena Dandini in “Parla con me” (erano i tempi in cui la Rai si teneva strette le trasmissioni culturali: once upon a time). Saramago, che sarebbe morto dopo non molti mesi a 88 anni, disse una frase memorabile: «Forse non vale per tutte le persone. Ma per me, più si diventa vecchi, più si diventa liberi. E più si diventa liberi, più si diventa radicali».

 

Forse non vale per tutti, è vero: perché uomini, e anche donne, più giovani di Saramago ma decisamente nella mezza età avanzata, sembrano essere piuttosto confusi sulla questione della libertà, e si sentono insidiati da una censura montante che li costringerebbe a dire «buongiorno a tutte e tutti» o a usare l’aborrito schwa, a non fischiare alle ragazze sconosciute e a venir puniti se si scrivono libri dove, come è sacrosanto in letteratura, non è tutto rose e fiori. Un gigantesco equivoco: perché si confonde la deriva estremista della «cancel culture» americana con la presa d’atto che esistono persone che vogliono essere nominate non come è gradito agli altri ma come gradiscono loro, e che semmai il mutare della lingua, per rimanere in questo ambito, fornisce una possibilità che non è mai un obbligo.

 

Non è vero, insomma, che se non si declinano le professioni al femminile si viene privati dei diritti civili. Non è vero che i femminismi esigono romanzi dove ogni oscurità dell’animo viene espulsa: basterebbe leggere Margaret Atwood o Ursula K. Le Guin per capirlo, avendo voglia di farlo, certo. Ed è singolare che molte di queste problematiche vengano affrontare con scherno e presunta ironia. L’ironia, diceva David Foster Wallace, si spunta dopo un uso prolungato: «Portata avanti nel tempo diviene la voce del prigioniero che deve farsi piacere la propria gabbia». Quindi, non è vero che in questi casi si diventa più liberi invecchiando: semplicemente, si teme di perdere i propri privilegi.

 

Inoltre, a forza di gridare alla censura, non ci si rende conto della censura. Quella vera. Nei giorni scorsi, per esempio, la Rai è stata un caso di studio. Primo: i fischi tagliati a Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura e ospite di Taobuk. Che sia stato fischiato è testimoniato da fior di video, oltre che dai presenti. Nella serata andata in onda il 3 luglio su Rai 1 sono rimasti solo gli applausi: una censura così maldestra che persino i componenti del Moige, che negli anni hanno richiesto l’oscuramento anche di “Sailor Moon”, si saranno messi a ridere. A seguire: il taglio del Tg1 della frase finale con cui Donatella Di Pietrantonio ha ringraziato dopo la vittoria dello Strega. «Prometto che userò la mia voce scritta e orale in difesa dei diritti delle donne per cui la mia generazione ha molto lottato» è rimasto. Il seguito, «diritti che oggi non sono più scontati», no. Poi ci sarebbe anche la vicenda di Rai News 24, che ha trasmesso il Festival (meloniano) delle città identitarie di Pomezia nella notte dei risultati delle elezioni francesi, ma infierire non è bello.

 

Dunque, per tutti coloro che gridano alla censura senza vedere quella vera, la cosa preziosa della settimana è “La saga di Polifemo” di Jacob Grimm, curata da Francesco Valagussa per Bollati Boringhieri, dove si analizza il mito del grande occhio simile a un disco solare, che tutto vede e tutto sa. Ma a volte gli sfuggono le cose più evidenti, e in alcuni casi, come è noto, finisce accecato.