Nelle indagini e nel processo, i magistrati inquirenti dominano sull’altra parte. È l’opinione di un avvocato d’esperienza. Che dice: la separazione delle carriere rispetto ai giudicanti ridefinirà i ruoli

Anni fa, come avvocato penalista, sono stato tra i primi a sottoscrivere una raccolta firme a sostegno della separazione delle carriere, fermamente convinto della validità di questa riforma per invertire l’utilizzo della funzione requirente, in più occasioni, ovviamente non sempre, così egualitaria rispetto alla difesa. Lo dico da figlio di ex pubblico ministero e con una esperienza giudiziaria di oltre 25 anni: la separazione delle carriere è, a mio avviso, un passaggio obbligato per ristabilire l’equilibrio processuale tra le parti, che, forse, per colpa di pochi, risulta oggi fortemente compromesso a scapito del sacrosanto diritto al giusto processo e all’effettiva terzietà del giudicante.

 

Seguire la carriera da requirente piuttosto che da giudicante equivale a mantenere una univoca impostazione, senza che, nel cambio di funzioni, possa residuare quella forma mentis accusatoria che, spesso, contraddistingue i pubblici ministeri, i quali, in una sorta di passaggio tra porte comunicanti, possono essere sia giudicanti sia requirenti.

 

Di frequente negli ultimi anni abbiamo assistito a gravi errori dei pubblici ministeri, tuttavia immuni da azioni di responsabilità, a causa anche di organi disciplinari non sempre reattivi alle problematiche verificatesi. Occorre invertire un sistema anacronistico e antigiuridico, dove accusa e difesa stanno, in concreto, su piani differenti e asimmetrici, così evitando che il cittadino si allarmi all’idea che chi ti accusa possa, poi, giudicarti, annullando quel principio di terzietà che è alla base di uno Stato di diritto.

 

Non deve sfuggire a coloro che contestano la riforma il fatto che l’Italia sia, tra i Paesi progrediti, uno dei pochi che mantenga quest’ordine giudiziario. Paesi come Germania, Regno Unito e Portogallo hanno adottato la separazione delle carriere. Una ragione ci dovrà pur essere se tale sistema separato viene dai più privilegiato.

 

Durante le indagini preliminari, nell’attuale condizione, i nostri pubblici ministeri svolgono un ruolo assolutistico, quali unici e incontrastati domini della fase processuale, residuando alla difesa un ruolo – i fatti lo dimostrano – di inevitabile sudditanza, invece di privilegiare una più fattiva e paritetica collaborazione.

 

Trovo, poi, priva di senso l’attuale polemica da parte delle rappresentanze della magistratura che sostengono che i cambi di funzioni, dopo la riforma Cartabia nel 2022, si siano ridotti da quattro a uno: se così è, domando, che cosa si teme in concreto da questa riforma, se nei fatti le funzioni sono già distinte?

 

Dov’è in vigore la separazione delle carriere al pubblico ministero è assegnata una condizione essenziale per l’esercizio delle sue funzioni e cioè una dotazione di un quadro proprio di magistrati, il corretto confine delle funzioni nell’adempimento della missione; il tutto al fine di indagini più stabili e continuative.

 

Definire il ruolo del pubblico ministero, non può negarsi, contribuirà a ristabilire quel rapporto di effettiva parità tra le parti processuali, senza che ciò intralci l’indipendenza dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni. Il tutto a vantaggio di una concreta collaborazione tra accusa e difesa. In questo senso, la recente dichiarazione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di inserire la figura dell’avvocato in Costituzione: novità epocale e grande conquista per la categoria che, se attuata, va nella condivisibile direzione di conferire a questa figura pari dignità degli altri soggetti processuali.

 

Non credo che tale riforma abbia, come si dice, una mera valenza politica, piuttosto risponde a una modernizzazione della nostra giurisdizione, a un necessario adeguamento di una funzione che negli anni – ripeto, forse per colpa di una cerchia ristretta, ma certamente in grado di incidere negativamente – si è andata deteriorando, assumendo toni e modalità di esercizio incompatibili con il ruolo disegnato dal Legislatore. Sono fermamente convinto che una riforma per quanto radicale non dispiegherà i propri effetti in tempi brevi, occorrerà modificare la percezione che ognuno di noi, in primis gli operatori del diritto hanno della figura del pm.

 

Non dobbiamo immaginare che, con un colpo di bacchetta magica, i pm cambieranno prontamente atteggiamento verso i difensori e questi ultimi si approcceranno, realmente, consci del ruolo paritario riconosciuto dalla Costituzione; tuttavia, se mai si inizia mai si è al principio dell’opera. L’unicità di categoria tra magistratura requirente e giudicante genera un’oggettiva confusione dei ruoli, non consente di assicurare quella concreta e continuativa terzietà che deve distinguere la figura del giudice, che forma il proprio convincimento nella fase processuale e, perciò, dev’essere mentalmente sgombro da quei caratteri investigativi che, ove sia stato pm, potrebbero caratterizzare e incidere sul suo libero convincimento.

 

Troppo spesso poi il rapporto dei pm con i difensori degli indagati si contraddistingue per espressioni di inevitabile autorità dei primi verso i secondi, che, consapevoli della gestione che il magistrato ha nella fase delle indagini preliminari, cercano sempre di evitare tensioni o di apparire insistenti, per non incidere negativamente sul proprio assistito. Di contro i pm, forse gravati da una mole mostruosa di fascicoli, soprattutto nelle Procure delle grandi città, assumono una posizione verso gli avvocati che non sembra proprio improntata alla collaborazione e al riconoscimento di parità delle funzioni di accusa e difesa. La tanto avversata separazione delle carriere con il tempo potrebbe, in positivo, nell’interesse primario ed esclusivo dell’utente, scardinare e risolvere questi problemi, ormai atavici.