I democratici non riescono a mettersi d'accordo sulle regole per scegliere il nuovo leader. Unica decisione, la data delle primarie (8 dicembre). L'assemblea nazionale finisce tra litigi e violente accuse tra le correnti
Nulla di fatto all'assemblea del Pd. C'è la data, ma non le regole, non la modifica statutaria. E ora il timore diffuso è che, con le vecchie procedure, non si faccia in tempo a fare tutto per l'8 dicembre, data invece proposta dal segretario Epifani e per ora confermata.
Questa mattina c'era l'accordo, frutto di giorni e nottate intere di trattative e mediazioni nella commissione presieduta da Roberto Gualtieri. Poi in plenaria succede il finimondo. Il numero legale non c'è («ma lo sapevano dall'inizio», accusa il renziano Paolo Gentiloni) e Epifani, dopo una lunga interruzione e un ultimo infruttuoso tentativo di conciliazione, non può far altro che constatare: «non abbiamo i numeri per fare le modifiche statutarie». Resta la data, ma solo quella. «Rimandiamo alla direzione per le procedure necessarie per lo svolgimento del congresso», continua Epifani. Il lavoro dell'assemblea è dunque concluso («Noi non ci rivedremo, la prossima assemblea sarà quella eletta dalle primarie il prossimo 8 dicembre», ha salutato Marina Sereni), ma le polemiche continueranno. Anche interne alla presidenza: «Era una cosa molto semplice da fare, ma è stata gestita molto male», si sfoga con l'Espresso Ivan Scalfarotto: «del resto abbiamo una vicepresidenza (Marina Sereni, nda) molto muscolare».
Ora è comunque tutta una caccia al colpevole. «Bindiani, civatiani e veltroniani», secondo Scalfarotto. «Il segretario Epifani, Bersani, Franceschini e i lettiani», invece, per Matteo Orfini che però non indica nella questione della separazione tra la carica di segretario e la candidatura a premier le ragioni dell'opposizione: «non c'entra nulla la questione del segretario-candidato premier. Se saltano le regole, diventa una questione di tempi: fare tutto con le vecchie procedure entro l'8 dicembre non è possibile», ragiona Orfini. I colpevoli, per lui, sono insomma «quelli che hanno sempre lavorato per non fare il congresso e blindare il governo». Bersani respinge le accuse al mittente: «ma che vi devo dire, non so neanche chi siano i bersaniani, e quei pochi che conosco sono qui a votare». E sui lettiani: «non so, non mi riguarda», dice l'ex segretario. Rosy Bindi durante lo stallo però a loro fa riferimento: «Se c'è qualcuno che per tutelare il governo vuole fermare il congresso, dovrebbe sapere che un Pd più forte fa bene pure al governo».
Non litigano solo i big. Anche tra i delegati c'è un clima di sospetti: «vedrai che si aggiusteranno il risultato», era il dubbio di un membro dell'assemblea. «Non mi stupirebbe che chiedessero false deleghe: non a tutti hanno chiesto la carta d'identità», è l'accusa. Il clima è questo.
«Si dimostra falsa la concordia finora esibita», dice Civati a fine assemblea: «Lo hanno fatto apposta. Dopo quattro mesi di dibattito surreale, torniamo al punto di partenza». Sui tempi il candidato alla segreteria è pessimista: «io farò di tutto perché si riesca, ma penso non sarà possibile». Fassina - anche lui indicato tra quelli che hanno lavorato al rinvio - si dice invece ottimista: «faremo in tempo, la direzione indicherà il modo». Ad alimentare le teorie di complotto c'è il ruolo del bersaniano Zoggia: è lui ad aver chiesto la sospensione per riunire nuovamente la commissione. «Ma se il problema era il numero legale» ragiona Gentiloni, «figurarsi dopo un'interruzione di un'ora a cavallo della pausa pranzo». Non pochi delegati si sono infatti allontanati. Lo stesso Cuperlo ha lasciato anzitempo l'assemblea: «ho un treno per Modena, devo andare a una manifestazione». Comprensibile.
L'assemblea è quindi servita, alla fine, solo per un primo confronto tra i candidati, tutti intervenuti: Renzi, Civati, Cuperlo e Pittella. Il più applaudto è stato il sindaco di Firenze, che ha continuamente lanciato stoccate contro i fallimenti della precedente gestione: è tornato il rottamatore e ha annunciato che partirà con la propria campagna congressuale da Bari. «Tra quindici giorni», anticipano i suoi. La bordata ai rottamandi è: «In questi 20 anni abbiamo governato anche noi, ci siamo stati anche noi. Se non siamo in grado di interpretare il cambiamento è un nostro problema». Nostro, o meglio vostro. Anche a Letta Renzi non fa sconti: «Non è giusto dare la colpa all'instabilità politica, l'idea che sia sempre colpa di qualcun altro è sbagliata».