Sul grande fiume del Sudest asiatico vivono oltre 70 milioni di persone. Che, da secoli, dipendono dal suo ecosistema. Ma il corso d’acqua può produrre anche energia a basso costo. Così si moltiplicano le dighe: uno sbarramento dopo l’altro, ogni anno di più. E se per molti è ricchezza, per tanti altri è tragedia (Foto di Andrea Di Biagio per l’Espresso)
Pham Tuan Phan, nazionalità vietnamita, è un fisico e un esperto di computer. Da un anno è alla guida della Mekong River Commission, l’organismo interstatale che si occupa di uno dei più grandi fiumi dell’Asia che nasce sull’altopiano del Tibet, per arrivare dopo 4 mila 350 chilometri a fondersi nel Mar Cinese Meridionale. Per questo lavoro è stata scelta una persona che vanta un curriculum di tutto rispetto: all’estero, prima nel quartier generale di New York delle Nazioni Unite nel campo dell’information service. Poi a Vienna, nell’organizzazione che vigila sugli accordi nel campo delle armi nucleari come responsabile delle infrastrutture di comunicazione: infine in Vietnam, come numero uno della Add-On Development, società a capitale misto che sviluppa software. [[ge:rep-locali:espresso:285255831]] Tanto onore, dunque, per il 63enne Pham Tuan Phan, che rappresenta il suo governo in un organismo da cui dipende la vita di decine di milioni di persone. Ma il fisico esperto di computer sapeva perfettamente che la carica di amministratore delegato è arrivata in un momento di tensione tra i quattro Paesi che fanno parte dell’organismo - Laos, Cambogia, Thailandia e Vietnam - e in una stagione in cui il budget si è ridotto drasticamente per la fuga di molti finanziatori stranieri. E se non ci sono gli uomini a creare problemi ci pensa la natura, visto che il 2016 si è rivelato il più secco e meno piovoso degli ultimi decenni.
L’origine dei molti mali che affliggono la Mekong River Commission si chiama energia elettrica. Il fiume muove una imponente massa d’acqua lungo tutto il suo percorso, miliardi di metri cubi capaci di produrre energia a bassissimo costo. Ecco allora che sempre più spesso i progetti economici che riguardano il Mekong sono solo e semplicemente dighe idroelettriche. Non è facile calcolare quante barriere idroelettriche siano state già costruite lungo il fiume perché molte, soprattutto dopo il confine cinese, non sono state erette sul corso principale ma sui grandi affluenti che entrano ed escono creando un sistema Mekong, il cui bacino ha un’estensione pari a tre volte la superficie dell’Italia.
La Cina, dove il Mekong scorre all’inizio della sua vita, non ha aderito alla Mekong River Commission, ma ha già costruito sei dighe, e altre otto risultano già avviate o comunque progettate. Il Laos invece, tra dighe vere e proprie e impianti più piccoli che non sono chiusure nette del fiume, ne ha una mezza dozzina e ne progetta due di dimensioni extra. La Cambogia ne ha due. La Thailandia cinque, tutte su fiumi che poi si mescolano con le acque del Mekong. Il Vietnam ha una mezza dozzina di stazioni idroelettriche, tutte su fiumi che fanno parte del grande bacino fluviale.
Il Mekong e le sue acque regolano la vita di oltre 70 milioni di persone. Questa popolazione certamente ha ricevuto e riceverà benefici immediati e diretti dalla costruzione delle dighe, in termini di accesso all’energia elettrica per uso domestico e anche economico-commerciale. Ma, se si presta ascolto a una serie di studi sull’impatto delle dighe sulle comunità fluviali condotti da università asiatiche, da gruppi ambientalisti e da Ong come il Mekong Energy and Ecology Network, milioni di persone rischiano di esserne colpiti negli interessi primari: il cibo e le attività economiche a cominciare dalla pesca.
Due dighe del Laos preoccupano gli esperti: una in corso di costruzione, dove ci sono le rapide di Xayaburi, l’altra al confine Laos-Cambogia nella zona di Don Sahong. Si teme che i pesci non siano più in grado di risalire la corrente per arrivare dove depositano le uova per poi riprendere la via verso la foce a causa degli sbarramenti. In Thailandia, uno dei maggiori beneficiari dell’energia elettrica laotiana insieme al Vietnam, hanno anche deciso di costruire grandi canali artificiali per dirottare le acque del Mekong e creare dei bacini utili alla agricoltura. Altri miliardi di metri cubi di acqua destinati a sparire.
Il pesce di acqua dolce è il perno non solo della catena alimentare per milioni di persone che vivono sul Mekong, ma anche del ciclo economico. I dati 2015 dicono che il fiume ha dato 4,4 milioni di tonnellate di pesce per un valore commerciale di 17 miliardi di dollari, una cifra che equivale al 13 per cento della produzione mondiale di pesca di acqua dolce. Analizzando l’impatto che questa attività ha sulle quattro nazioni che fanno parte della Mekong River Commission si scopre che per Cambogia e Laos il pesce vale rispettivamente il 18 e il 12,8 per cento del prodotto interno lordo (fatturato di 3 e 1,5 miliardi di dollari); per il Vietnam e per la Thailandia la percentuale rispetto al Pil è più bassa - 3,1 e 1,8 per cento - perché le due nazioni hanno un’economia più sviluppata, ma il valore del pescato è importante con rispettivamente 5,74 e 6,72 miliardi di dollari.
Così, anni di decisioni unilaterali degli Stati membri e mancanza di coordinamento hanno creato un corto circuito all’interno della Mekong River Commission. Una ipotesi di moratoria decennale sulla costruzione di dighe è rimasta lettera morta. Negli ultimi anni, poi, è cresciuto il malcontento dei Paesi donatori e degli organismi che nel corso degli ultimi decenni avevano svolto un ruolo di finanziamento e anche di guida politica, scientifica e ambientale. Risultato: nei prossimi cinque anni la Mekong River Commission ha previsto un bilancio di 65 milioni di dollari, mentre nei cinque precedenti ha potuto contare su 115 milioni. Molti donatori hanno drasticamente ridotto il loro assegno mentre qualcuno, come l’Unione europea, sta discutendo il da farsi. «Abbiamo riconosciuto che negli ultimi tempi i miglioramenti ci sono stati, ma c’è ancora molto da fare», ha detto all’Espresso Luisa Ragher, numero due della missione diplomatica Ue a Bangkok.
Per anni, prima della nomina del nuovo amministratore delegato vietnamita, si è assistito a mancanza di trasparenza, spese burocratiche e non dirette alle attività sul Mekong. Per non parlare della politica delle porte chiuse rispetto ai donatori, che fino a qualche anno potevano essere tutti presenti ai meeting più importanti, mentre alla fine erano ammesse solo due organizzazioni.
Tale era l’insoddisfazione che nel 2015 i cosiddetti Development Partners and Partner Organizations (12 nazioni, di cui nove europee, la World Bank, la Ue, due enti di sviluppo asiatici, due organizzazioni Onu e un paio di gruppi ambientali) hanno messo nero su bianco una serie di aut aut: dalla richiesta di un codice etico dei dipendenti, inclusa «la possibilità per dipendenti ed esterni di fare denunce anonime su casi di frode o di comportamento non legale», alla «riduzione della povertà e alla eguaglianza tra i gender come prospettiva per qualsiasi azione di sviluppo».
Il nuovo amministratore vietnamita creerà un nuovo rapporto di fiducia tra i donors e la Mekong Commission? Non sarà facile, perché anche tra i quattro Stati membri è salita la temperatura e tra questi e coloro che del fiume vivono ma non fanno parte del gruppo. Il responsabile degli uffici vietnamiti della Mekong Commission, Le Duc Trung, ha dichiarato ufficialmente che la libertà di utilizzare il fiume per lo sviluppo del proprio Paese non può essere negata a nessuno, ma tutto deve seguire le leggi internazionali e il trattato fondativo della Mrc.
Ma che alla fine la questione Mekong e dighe idroelettriche sia un problema politico chiave nell’area lo ha reso evidente il primo ministro del Vietnam, Nguyen Tan Dung. Qualche mese fa, ha annunciato di aver invitato i suoi ministri a preparare una nota diplomatica da mandare al governo cinese con la quale si chiede di aprire le dighe in terra cinese per rilasciare maggiori quantità di acqua in una stagione tra le più secche degli ultimi decenni. Una nota diplomatica di questo tipo sottolinea che il Paese che ha il compito di governare la Mekong River Commission non è per nulla d’accordo che il fiume sia utilizzato in modo unilaterale e senza l’accordo di tutti coloro che ci vivono intorno.