Dalla pancia del Paese affiorano pulsioni di estrema destra e il Pd pensa di affrontarle con divieti, bollini e punizioni per il Web. Bisogna invece combattere ogni giorno l'egemonia culturale reazionaria, sempre più diffusa. Non è facile, certo, ma è l'unico modo
Ci sono diverse tentazioni antidemocratiche nel dibattito sorto intorno alla
legge Fiano contro la propaganda fascista.
La prima, dei sostenitori, è definire “fascista” chiunque vi si opponga, quando naturalmente non servono nostalgie del Ventennio per porre una semplice domanda: che cosa è, esattamente, “propaganda”?
Il testo parla di “immagini” e “contenuti propri” di fascismo e nazismo, delle “relative ideologie”, di richiamarne pubblicamente “la simbologia e la gestualità”. In alcuni casi, abbastanza per identificare uno squadrista; in molti altri - dalla satira alla ricerca, passando per tutte le sfumature consentite dalla libera espressione in democrazia - no. Non perché essere fascisti è un’opinione come le altre, ma perché un conto è criminalizzare la violenza e il razzismo come metodo di lotta e seduzione politica, o vietare la ricostituzione di un partito totalitario, come nelle già vigenti leggi Scelba e Mancino; un altro è criminalizzare un braccio teso, la vendita di un santino del Duce o la diffusione di una sua foto su Facebook per la loro sola esistenza.
Proprio su Internet peraltro, secondo la norma, essere fascisti è di “un terzo” più grave: perché? Il principio della rete come aggravante di reato è un concetto che ruota nelle menti dei legislatori italiani almeno dal
ddl Lauro del 2009, in cui il senatore Pdl ipotizzava un aumento di pena per il proposto, e bocciato, reato di “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network”.
Oggi si parla di “strumenti telematici e informatici”, ma è singolare pensare che una trasmissione televisiva più o meno velatamente razzista, o un titolo di giornale, siano minori veicoli di propaganda. Singolare, a meno che non si inquadri l’idea all’interno dell’ossessione che i liberal di tutto il mondo hanno sviluppato per la propaganda digitale dopo l'elezione di Donald Trump - senza peraltro prendersi la briga di definirne i contorni, o spiegarci perché dovrebbe essere più pericolosa di quella “offline”.
Anche questa di criminalizzare la propaganda e le menzogne che oggi chiamiamo inspiegabilmente “fake news”, invece di neutralizzarle con le idee, i fatti e la civiltà, è una tentazione antidemocratica, tale da avere
allarmato perfino lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye.
Il problema è che quando si sfonda la soglia della criminalizzazione della propaganda ideologica non si sa bene dove si va a finire.
Certo, c’è una diffusa e montante tentazione autoritaria a destra, al punto che sempre più è il linguaggio dei Salvini e delle Le Pen a fare quella che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”: un rapporto di dominio, sì, ma più subdolo e pervasivo perché fondato sul consenso, prima che sulla coercizione, e sempre “necessariamente pedagogico”.
Anche questo è un dato di realtà con cui fare i conti, utile per decifrare gli strepiti di chi maschera la volontà di giustificare, assolvere, minimizzare dietro al faro del libero pensiero.
Ma una volta rotti gli argini, le acque fluiscono verso anfratti che potrebbero allagare la stanza della democrazia, più che quella degli estremisti, sempre peraltro dotata di insospettabili anfratti. Pubblicare un testo di propaganda fascista diventa dunque reato, anche quando è di interesse storico? Un video su YouTube con i discorsi di Joseph Goebbels - il vero padre della propaganda contemporanea, che andrebbe studiato nel dettaglio, non consegnato all’oblio - è materia da codice penale?
Domande che, in una certa misura, si ponevano già, ma che oggi si ripropongono con maggiore forza. Domande che somigliano molto da vicino a quelle poste nei mesi in cui i terroristi di ISIS occupavano il web con le loro strategie di comunicazione. E cosa è più democratico, tentare la via difficile - mostrando ma contestualizzando, diffondendo ma senza essere megafoni - di ottenere una opinione pubblica informata e adulta abbastanza da valutare da sé l’orrore, o pretendere - nell'era della disintermediazione, uno sforzo quasi certamente vano - di trattarla come un consesso di infanti a cui appiccicare un bollino rosso, un divieto, così che il male finisca sotto il tappeto?
E ancora: cosa distingue essenzialmente la propaganda estremista, o fondamentalista, da quella politica? Il passo, insegnano i regimi autoritari di oggi, non di ieri, è più breve di quanto sembri. Si pensi alla Cina, e alla
recente norma che prevede lo screening, da parte di due revisori, di ogni contenuto audio-video pubblicato in rete, con conseguente censura di tutti quelli che non aderiscono ai “valori di fondo del socialismo”.
Nessuno sostiene che Fiano e i sostenitori della sua legge abbiano Pechino come modello; il pericolo, tuttavia, è aprire le porte a una ratio che rende possibile adottarlo, se ritenuto necessario.
Resta poi l’ultima obiezione, più profonda: che il fascismo è un cancro difficile da estirpare, un male apparentemente incurabile della contemporaneità che è meglio prevenire, dissolvere piuttosto che risolvere.
Inutile fare di Cinque Stelle - gli epuratori a mezzo blog - e leghisti improbabili difensori delle libertà civili: se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica.
L’intolleranza non si batte coi divieti, né tantomeno scimmiottandone slogan e forme, ma con l’intransigenza e l’orgoglio di appartenere a un mondo in cui si ha memoria di che accade un saluto romano dopo l’altro. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica. E, infatti, sembra proprio l’ingrediente mancante al dibattito in corso.