Italia-Francia, un posto al sole per due
L'estate di fuoco del Club Med
La contesa per ?la conquista degli storici villaggi vede schierati da una parte Henri Giscard d’Estaing e dal'altra Andrea Bonomi. Ma dietro il duello c’è la sfida per un mercato in forte crescita: il turismo globale
C'è stato un periodo lungo quasi quattro anni durante il quale, alla Borsa di Parigi, il titolo del Club Med sembrava attrarre gli investitori tanto quanto il suo resort di Napitia, in Calabria, riesce a fare con i turisti a fine novembre. In poche parole: non se lo filava nessuno.
Le azioni del più famoso marchio al mondo di villaggi turistici, un’icona per chiunque sia cresciuto nel mito di una vacanza tutta sole, mare e libertà sulle spiagge più belle del pianeta, traccheggiavano senza arte né parte tra i dodici e i quindici euro. All’improvviso, nel maggio del 2013, è scoppiata la bagarre. Prima si è fatta avanti una cordata franco-cinese di soci vicini al presidente Henri Giscard d’Estaing, pronti a conquistare la maggioranza assoluta mettendo sul piatto oltre 560 milioni di euro. Poi l’imprenditore Andrea Bonomi, quartiere generale a Lugano, in Svizzera, ma origini altolocate nella finanza milanese, ha deciso che il Club valeva molto di più. Ha rastrellato titoli sul mercato, diventando il principale azionista (con il 10,5 per cento) e minacciando di far saltare i piani di Giscard d’Estaing. Infine ha lanciato una sua Offerta pubblica d’acquisto (Opa), alternativa a quella franco-cinese, scommettendo la bellezza di 790 milioni di euro per prendersi l’intero gruppo. Prezzo per azione: 21 euro, un valore che fino a poco tempo fa gli investitori non avrebbero mai sperato di vedere.
Sabbia color oro, mare verde smeraldo, capanne di paglia dove dormire, catamarani Hobie Cat sulla spiaggia e giovani animatori scatenati. Chi fosse rimasto fermo all’immaginario selvaggio del Club Méditerranée degli inizi, quello fondato in Corsica negli anni Cinquanta dal pallanuotista belga Gérard Blitz e dall’imprenditore francese Gilbert Trigano, due pionieri capaci di aprire il primo villaggio nella lontanissima Tahiti già nel 1956, faticherebbe a capire la battaglia milionaria che si è scatenata. Ancora di più se si pensa che il concetto stesso di villaggio vacanze, in Italia come altrove, negli ultimi anni non sembra aver brillato granché.
Prendiamo la Valtur, una catena che aveva occupato alcuni dei lidi più affascinanti d’Italia, da Ostuni all’isola di Santo Stefano. Negli ultimi anni i soci illustri dei primi tempi, dagli Agnelli all’Alitalia, avevano lasciato il campo a un imprenditore siciliano poi coinvolto in alcune inchieste per fatti di mafia, Carmelo Patti. In seguito al fallimento, la Valtur è stata rilevata nel 2012 per 8,3 milioni di euro da un imprenditore di origine montenegrina, Franjo Ljuldjuraj, proprietario di un piccolo tour operator con sede a Verona. La ristrutturazione avviata dai liquidatori è stata portata avanti dal nuovo proprietario, che ora si presenta con un pacchetto ristretto di nove villaggi e tariffe in apparenza convenienti (“super smart”, definiscono sul sito un’offerta da 490 euro per una settimana a luglio). Ma valutare come stia andando la nuova gestione non è semplice: l’ultimo bilancio consolidato depositato dalla holding Orogroup è fermo all’ottobre 2012, e vedeva il terzo esercizio consecutivo in perdita (per 242 mila euro).
E ancora, un altro marchio celebre, i Viaggi del Ventaglio. Fondata nel 1976, aveva avuto un momento di grande slancio, arrivando a quotarsi in Piazza degli Affari e a fare incetta di una settantina di villaggi in giro per il mondo, tour operator e compagnie charter, da Best Tours a Columbus, da Lauda Air a Livingston. Nel 2010, però, era arrivato il fallimento, con la messa in vendita dell’intero gruppo da parte del Tribunale di Milano per soli 1,2 milioni di euro. Per molto tempo, però, non c’è stato nulla da fare e solo qualche mese fa quel che resta del Ventaglio è stato acquistato da un altro piccolo tour operator, questa volta di Bergamo, la Turisberg, specializzata in pacchetti viaggio nella penisola iberica. «Abbiamo investito 250 mila euro», ha detto al quotidiano “l’Eco di Bergamo” il presidente, che per uno scherzo del destino è omonimo del vecchio fondatore del ventaglio: Bruno Colombo. Anche qui non stiamo parlando di colossi: l’ultimo bilancio disponibile della Turisberg, relativo pure in questo caso al 2012, registrava ricavi per 1,7 milioni di euro, nonchè un piccolo utile netto (9.669 euro).
Se questi sono i destini minimi dei marchi italiani più gloriosi, che cosa c’è dietro lo scontro fra titani che agita il Club Med? Sono forse pazzi a sfidarsi a suon di milioni e di pubbliche accuse due personaggi del calibro di Bonomi e di Giscard d’Estaing, figlio di Valéry presidente della Repubblica francese dal 1974 al 1981? Per rispondere a queste domande occorre fare un salto temporale e comprendere che cosa è oggi il Club Med.
Messe da parte le aspirazioni di divertimento allo stato puro delle origini, oggi il Club vuol essere qualcosa di completamente diverso. Un posto esclusivo, fatto di località da sogno, servizi di lusso, strutture di design e soprattutto spa e centri benessere, il passatempo di cui nessuna destinazione oggi sembra poter fare a meno. Le capanne di paglia non esistono più, decine di vecchi villaggi e hotel (per la precisione 65) sono stati chiusi e il gruppo punta sempre più su quelli che vengono ormai definiti resort, bollinati con 4 o 5 “tridenti”, il massimo nella valutazione autoctona del servizio. Non per capriccio, ma perché è il mercato a chiedere questo.
Nel 2018 il mercato turistico globale varrà oltre 2.600 miliardi di euro, quasi 800 più di oggi. L’Europa crescerà, il Nord America pure, ma il vero boom sarà in Asia (in valori assoluti) e in Sud America (in termini relativi, anche se per dimensioni resterà un mercato più piccolino). E ancora, ecco qualche altro numero, giusto per dare un’idea. Entro il 2021 l’offerta di camere d’albergo nella regione che comprende l’Asia e il Pacifico raddoppierà, arrivando a circa 6 milioni di unità. Gran parte di questo incremento sarà in Cina, dove la disponibilità di stanze d’hotel arriverà a 3,6 milioni (nel 2011 erano meno della metà). Uno sviluppo impetuoso, che però non sarà un unicum. Perché anche negli Stati Uniti, ad esempio, si prevede che il numero di camere d’albergo cresca al ritmo dell’8 per cento medio l’anno, arrivando a 5,6 milioni di unità.
È questo il fiume di turisti in cui entrambi i contendenti vogliono che il Club Med navighi, con modalità e obbiettivi un po’ differenti fra loro. Giscard d’Estaing, con i soci francesi del fondo d’investimento Ardian e la conglomerata cinese Fosun, punta tutto sulla clientela “premium”, come la definisce, e scommette in particolare sulla Cina, dove il gruppo offre alla clientela tre resort: uno sull’isola di Dong’Ao, nel Sud Est, uno tra le colline a pan di zucchero e le risaie del fiume Li, un terzo in una località sciistica non lontana dalla città di Harbin, dove il sito web del Club colloca un po’ imprudentemente «la montagna più alta dell’Asia», dimenticando l’intera batteria degli ottomila himalayani.
Bonomi, che ha associato a sé l’imprenditore sudafricano Sol Kerzner, creatore di molteplici catene alberghiere, nonché il colosso degli hotel brasiliani Brazil Hospitality Group, dice ugualmente di voler puntare sulla Cina, ma anche che l’Europa e in particolare la Francia sono state trascurate dalla gestione attuale. Non vuole marginalizzare i villaggi a tre tridenti, che saranno oggetto di offerte mirate, promette maggiori investimenti sul marketing online e intende stringere rapporti più stretti con i tour operator di varie aree geografiche, americani, scandinavi, britannici e tedeschi. Per vedere se potrà mettere in pratica il suo piano, deve però attendere il parere del consiglio di amministrazione del gruppo parigino, che si riunirà il 25 luglio.
Quella del Club, dunque, è una battaglia da titani. Più la griffe del turismo francese si spingerà verso il settore del lusso, più spingerà lontano da sé il proprio passato e i suoi concorrenti diventeranno i colossi internazionali, i vari Hyatt, Shangri-La, Intercontinental. Un poco sotto, dovrà battersi con una miriade di operatori più o meno locali, fortissimi nelle più ambite mete esotiche. È chiaro, però, che l’immagine del villaggio vecchio stile è ormai inadeguata. Come dimostrano anche quegli operatori italiani che stanno ritagliandosi uno spicchio di futuro, puntando su servizi che sanno meno di villaggio, più di resort. I nomi sono diversi, la Eden Viaggi, la Th Resorts, la Uvet.
Il più noto però è l’Alpitour, che il manager Gabriele Burgio - arrivato nel 2012 - ha rivoltato come un calzino. Tra le varie novità ha potenziato la compagnia aerea di proprietà, la Neos, aprendo i voli a clienti esterni e ordinando due nuovi Boeing 787 Dreamliner, che potranno raggiungere destinazioni fino a 14.500 chilometri di distanza. E ha rilanciato i villaggi, sia quelli con il marchio Bravo sia quelli con il brand Francorosso, aprendo varie strutture all’estero, da Cuba al Madagascar.
Per individuare un vero pioniere, però, bisogna tornare a Ernesto Preatoni, finanziere e immobiliarista con molte vite, tra cui quella di scopritore di Sharm el-Sheikh. La sua nuova avventura è l’isola birmana di Domel, nel Mar delle Andamane. Racconta che insieme ad amici imprenditori, soprattutto indiani, ci investirà inizialmente 250 milioni di dollari, partendo con 300 appartamenti, due alberghi e un campo da golf. Se le cose andranno bene, i progetti si estenderanno all’intera isola, con l’idea di arrivare a 56 mila posti letto. «Se invece andranno male», dice, «vuol dire che almeno avremo realizzato un resort di lusso».