Inchiesta

Ecco perché l'Euro debole fa bene all'economia Così la svalutazione aiuta il Made in Italy

di Gloria Riva e Stefano Vergine   25 febbraio 2015

  • linkedintwitterfacebook
euro

Dalle esportazioni al turismo, la situazione della moneta unica è una manna per l’Italia, come dimostrano le vendite oltre confine tornate a livelli pre-crisi. E se il prezzo del petrolio non risale, la ripresa si avvicina

euro
Nella zona industriale di Matera, a una manciata di chilometri dai Sassi più famosi d’Italia, lo ripetono tutti. Il distretto del divano, qui, è diventato grande guadagnando sul cambio tra lira e dollaro, mica sul valore del prodotto. Altri tempi. Erano gli anni Ottanta, un’aziendina di nome Natuzzi diventava un colosso mondiale dei sofà e intorno fiorivano fornitori e concorrenti che avrebbero dato vita a una delle più importanti zone industriali del Sud. Poi arriva l’euro, addio a ogni taumaturgica svalutazione della lira e il distretto si rimpicciolisce. In quindici anni ha perso metà degli occupati, che oggi viaggiano attorno ai 1.500. Da qualche mese, però, nella città lucana è tornato l’entusiasmo. Nascosti in decine di laboratori disseminati in periferia, tagliatori di pelli e sarte sono tornati al lavoro. «Sembrano un po’ i vecchi tempi, quando vendevamo il primo divano in pelle per la classe media americana», sorride il presidente del distretto, Donato Caldarulo, mentre dall’ufficio guarda le colline pietrose dell’altopiano murgese. Forse esagerato, il paragone è però sintomatico del cambiamento.

I DIVANI RINGRAZIANO DRAGHI
Quello che si sta manifestando in Basilicata è un fenomeno che coinvolge molti settori dell’economia. E alla base ha una spiegazione semplice. L’euro è in discesa da quasi un anno rispetto a tutte le principali valute, una dinamica che permette all’Italia di tornare a sfoderare una delle sue armi economiche predilette: le esportazioni.
[[ge:rep-locali:espresso:285515601]]
Tutto inizia ad aprile dell’anno scorso, quando il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, parla per la prima volta del “quantitative easing”, cioè dell’acquisto di titoli di debito pubblico da parte della stessa Bce. In pratica, una montagna di euro pronta a essere messa in circolo. Soldi benedetti dai Paesi più indebitati dell’Eurozona, e maledetti dalla Germania di Angela Merkel, convinta che, in questo modo, la Bce disincentivi queste nazioni (tra cui l’Italia) a fare le riforme necessarie per rimettere a posto le finanze pubbliche. La sola possibilità che Draghi metta sul mercato enormi quantità di euro dà però il via a una discesa graduale della moneta unica. Che si trasforma in una caduta verticale quando, il 22 gennaio scorso, le intenzioni si trasformano in realtà e Draghi annuncia che a marzo inizierà a acquistare titoli per un ammontare di mille miliardi. Il giorno dopo, per comprare un euro ci vogliono 1,11 dollari. Un quinto in meno rispetto ad aprile.

Il termometro economico più sensibile alle svalutazioni monetarie è il turismo, e infatti qui l’effetto Draghi si è fatto sentire velocemente. «Nelle ultime due settimane le prenotazioni nei nostri alberghi italiani sono aumentate del 10 per cento rispetto allo scorso anno», racconta Renzo Iorio, della catena Accor Hotel. Sperano di beneficiarne presto anche a Matera, da poco incoronata centro europeo della cultura per il 2019. In attesa dei turisti, la Città dei Sassi si gode la ripresa della sua industria, che dopo anni di cassa integrazione sta tornando a creare lavoro. Alla Ego Italiano, uno dei produttori di divani della zona, che vende all’estero metà della sua produzione e con l’indotto impiega in tutto 130 persone, nei moderni uffici segnalati da due grandi bandiere con il logo dell’azienda, i titolari stanno preparando documenti e contratti per dare lavoro a un’altra ventina di addetti.

Merito soprattutto delle richieste che arrivano dall’America, tornata a essere la stella polare degli esportatori dopo anni in cui la bussola era sempre puntata su Pechino. Per spiegare il vantaggio di vendere con l’euro debole, l’amministratore delegato Piero Stano cita un esempio: «Un nostro rivenditore americano negli ultimi due mesi riesce a fare il 35 per cento di sconto sui nostri prodotti senza cambiare il prezzo di listino, non più il 20 come prima. In questo modo, mantenendo gli stessi margini di guadagno, noi possiamo aumentare la quota sul mercato statunitense, andando a fare concorrenza anche a quel made in China che finora ci ha dato del filo da torcere».

Durante la recessione degli ultimi anni, l’export è stata una delle pochissime voci positive dell’economia tricolore. E dopo il tonfo del 2009, le vendite oltreconfine sono progressivamente tornate ai livelli pre crisi. Un recupero però non uniforme. Il made in Italy si è infatti indebolito nell’area euro, lasciando terreno libero alla Germania che ha così ampliato ulteriormente il suo surplus commerciale. Mentre è cresciuto nelle Americhe e in Asia, zone in cui si utilizza quasi sempre il dollaro come valuta di riferimento. Per questo, ora che la moneta unica è scesa, gli imprenditori nostrani che hanno resistito alla crisi si fregano le mani. Non solo quelli che competono con cinesi e americani, anche chi deve battere la concorrenza svizzera.
Il caso
Ma la banca per l’export nasce debole
25/2/2015

Pochi giorni prima che Draghi annunciasse l’avvio del quantitative easing, infatti, la Banca centrale della Confederazione aveva deciso a sorpresa di slegare l’andamento del franco da quello dell’euro. Risultato? La valuta svizzera oggi vale quasi il 20 per cento in più rispetto ad allora. Una manna per aziende come la Omet di Lecco, 70 milioni di fatturato, che fa macchine per stampare carta e packaging, e ha guadagnato quote di mercato sui concorrenti elvetici: «Sembra difficile da credere ma le nostre macchine sono più avanzate rispetto alle loro. E ora, grazie al cambio, riusciamo a venderle allo stesso prezzo di quelle svizzere», dice il presidente Antonio Bartesaghi, mentre mostra con orgoglio un grande pannello dove sono raccolti e evidenziati con colori diversi tutti gli ordini raccolti, la metà dei quali fuori dall’Europa.
[[ge:rep-locali:espresso:285515603]]
Una sfida in più per altre, come raccontano a Cadorago, nel comasco. Il Caglificio Clerici, un edificio in vetro immerso tra pini e abeti, dista solo cinque chilometri dalla dogana di Chiasso. «Per trattenere i dipendenti più bravi dobbiamo alzare gli stipendi», dice Martino Verga, titolare dell’azienda che produce fermenti lattici e muffe capaci di dare l’aroma giusto al formaggio, dalle sottilette all’Emmenthal. Verga conferma però l’effetto benefico dell’euro debole: «La svalutazione ci aiuta, soprattutto negli Stati Uniti».

LA RIVINCITA SUL PARMESAN
Il settore principe del nostro export è quello della meccanica, le macchine automatiche in particolare. Ma qui i tempi di vendita sono lenti e gli effetti del cambio sui nuovi contratti si vedranno più avanti. Ci sono invece business dove tutto avviene in modo rapido. È il caso dell’arredamento, della moda e dell’agroalimentare.

Mimmo Nardelli, che produce abiti a Martina Franca, in provincia di Taranto, cinque anni fa aveva dovuto chiudere il suo showroom a New York: dal 2008 al 2013 la recessione degli States aveva più che dimezzato il fatturato dell’azienda, portando con sé il taglio di 170 dipendenti. Nel 2014 la tendenza si è invertita. Racconta Nardelli: «Siamo cresciuti del 10 per cento, abbiamo ripreso ad assumere, stiamo pensando di riavviare l’intero reparto produttivo e abbiamo già riaperto il nostro negozio di New York». Secondo l’associazione di settore, che si chiama Sistema Moda Italia, l’imprenditore pugliese fa bene a essere ottimista, perché le vendite negli Usa potrebbero aumentare di un altro 20 per cento quest’anno. «La ripresa dell’economia americana e l’indebolimento dell’euro rappresentano gli ingredienti di un mix perfetto», commenta il direttore, Gianfranco Di Natale, secondo cui un’ulteriore spinta arriverà dalla possibile entrata in vigore del Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, un patto di libero scambio tra Europa e Usa.
Scheda
Made in Italy, ecco il piano straordinario
25/2/2015

Anche a Sommacampagna, in provincia di Verona, tra i vitigni da cui si produce il bianco di Custoza, la pensano così. Solo che in questo caso l’obiettivo non è vendere capi d’abbigliamento. Nisio Paganin, direttore della Agriform, cooperativa che raccoglie il latte di mille allevatori per trasformarlo soprattutto in Grana Padano, dice che negli ultimi anni i rivali più ostici sono stati il Parmesan e il Regianito, cloni a stelle e strisce del Parmigiano.

«Adesso che l’euro si è svalutato non sono più così convenienti», spiega Paganin, «e infatti le nostre vendite negli Usa a gennaio sono aumentate del 30 per cento. Peccato solo per la situazione in Russia...».
[[ge:rep-locali:espresso:285515599]]
Già, la Russia: mercato in cui nell’ultimo anno l’export tricolore si è praticamente dimezzato. La guerra in Ucraina ha riportato la tensione fra Mosca e l’Occidente ai livelli della Guerra Fredda. E a rimetterci sono state anche molte imprese italiane. Alcune, come la Agriform, non possono più esportare formaggio, visto che il Cremlino ha vietato l’importazione di vari prodotti alimentari europei. Altre hanno subìto l’effetto indiretto dello scontro geopolitico. Le sanzioni occidentali, unite al calo del prezzo del petrolio, hanno infatti mandato in tilt l’economia russa, la cui valuta è andata a picco anche rispetto al già debole euro. In sei mesi il rublo ha perso quasi il 60 per cento sulla moneta unica. Con il risultato che pure chi sarebbe libero di esportare verso gli Urali vende poco e male.

La botta l’hanno sentita forte i produttori di mobili, che nell’ultimo anno hanno dovuto rinunciare al 7,3 per cento del loro export: «Per fortuna è arrivata la svalutazione dell’euro, che ci sta dando una mano negli Stati Uniti ma anche in Cina, visto che la valuta locale, il renminbi, è legato al dollaro», dice Roberto Snaidero, presidente di Federlegno Arredo. Pure a Sassuolo, capitale della ceramica italiana, si sente la mancanza dei russi. Battendo sui tasti della calcolatrice, in un magazzino circondato da pile di piastrelle pronte a essere caricate sui camion, Giorgio Romani, titolare del Cir Serenissima, gruppo che fattura 100 milioni di euro e vende all’estero oltre il 70 per cento della produzione, calcola che il crollo del rublo quest’anno gli farà perdere un terzo delle vendite nel Paese: «Ma ci consoliamo con il calo dei costi dell’energia, una voce importante per aziende come la nostra».

[[ge:rep-locali:espresso:285515600]]

BENEDETTO GREGGIO
I benefici che arrivano dalla diminuzione delle bollette per l’elettricità sono confermati da parecchi studi. L’accoppiata petrolio basso-euro debole può ridare slancio all’export italiano. Il rapporto annuale sui settori industriali pubblicato da Prometeia e Intesa Sanpaolo spiega che, con il greggio a 50 dollari al barile e il cambio dollaro-euro a 1,10 - condizioni molto simili a quelle attuali - i costi operativi delle imprese manifatturiere diminuiscono del due per cento. Risparmi che, semplificando, le aziende possono utilizzare in due modi. Per aumentare i margini di guadagno, se mantengono invariati i prezzi dei prodotti. O al contrario, se puntano sugli sconti, per conquistare nuove quote ai danni dei concorrenti. Il centro studi di Confindustria stima che, se le cose non cambieranno, la spinta combinata di cambio e petrolio sarà molto forte, pari al 2,1 per cento di Pil in più quest’anno e al 2,5 nel 2016, anche se sul dato complessivo peseranno fattori negativi come la debole domanda interna. «Di sicuro siamo in una fase di svolta del ciclo», sostiene Marco Fortis, docente di Economia industriale all’università Cattolica di Milano: «Alla base c’è l’euro debole, ma contribuiscono alla ripresa, oltre al crollo del greggio, la fine della caduta dei consumi in Italia e gli incentivi decisi dal governo, come gli sgravi sulle assunzioni e quelli sull’acquisto di nuovi macchinari».

I segnali incoraggianti non mancano. Tra novembre e dicembre la produzione industriale ha ricominciato a salire, seppur soltanto dello 0,4 per cento, mentre la disoccupazione è scesa della stessa percentuale. La bonanza da euro e petrolio non sta però aiutando proprio tutti.Prendiamo la Dot System, azienda brianzola da 10 milioni di fatturato e una quarantina di addetti, che realizza sistemi di controllo per treni come il Frecciarossa.

[[ge:rep-locali:espresso:285515604]]

I componenti delle schede elettroniche li acquista negli Stati Uniti: «Con l’euro debole paghiamo di più la materia prima e non riusciamo a ricaricare i costi aggiuntivi sul cliente che, al contrario, pretende sconti», spiega il titolare, Luciano Scaccabarozzi, mentre mostra l’ultima innovazione, un tablet da installare sui sedili dei treni ad alta velocità. È questo uno dei nuovi segmenti di mercato che la Dot System vuole cavalcare per ovviare al mini euro. Più o meno la stessa strategia adottata dalla vicina Fomas, il cui problema al momento non è la valuta ma il settore.

[[ge:rep-locali:espresso:285515602]]

Sul murales che dà il benvenuto al visitatore, all’ingresso dell’azienda, è spiegata l’attività principale: forgiatura di parti in acciaio destinate al mondo petrolifero. «Il crollo del prezzo del greggio è un vantaggio perché riduce i nostri costi ma, da un altro punto di vista, ci penalizza, visto che quasi la metà del nostro business è legato a un comparto quello dell’Oil & Gas, che si è letteralmente inchiodato», spiega l’amministratore delegato, Jacopo Guzzoni. Che, per attutire il colpo, vuole puntare su altre energie come eolico e nucleare, dove l’euro basso può essere una carta da giocare.

La decisione di Draghi di soccorrere l’Europa più debole sembra insomma aver rimesso il turbo a quasi tutte le aziende italiane più votate all’esportazione. Marco Giorgino, professore di Finanza al Politecnico di Milano, invita però a volgere lo sguardo più avanti: «Questa dinamica somiglia molto alle molteplici svalutazioni della lira avvenute in passato e ne possiede le stesse insidie. Come allora, una situazione economica di questo tipo aumenta la competitività nel breve termine, ma alla lunga rischia di diventare controproducente». Tradotto: o le aziende saranno in grado di sfruttare il momento positivo per investire, aumentare la produttività e l’appeal dei prodotti, oppure quando l’euro tornerà a crescere si troveranno di nuovo nei pasticci. Un po’ quello che il governatore della Banca centrale europea ha detto ai leader politici della zona euro annunciando l’avvio del quantitative easing: «Noi facciamo la nostra parte ma i governi devono portare a termine i loro compiti».