Il caso

Ma la banca per l’export nasce debole

di Stefano Vergine   25 febbraio 2015

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Il ministro Federica Guidi

L'istituto a controllo pubblico dovrebbe aiutare le aziende italiane che puntano ai mercati esteri. Ma ancora prima di partire ha ridotto il suo patrimonio. Forse perché le banche private temono la sua concorrenza

Il ministro Federica Guidi
«È la novità sicuramente più importante per l’export italiano». Carlo Calenda, vice ministro per lo Sviluppo economico, descrive così il progetto di creare una banca per l’export: una società che, sotto il controllo dello Stato e beneficiando di una speciale garanzia pubblica, avrà la licenza per finanziare le imprese che vogliono vendere i propri prodotti fuori confine. È scritto all’articolo 3 del decreto “Investment compact”, approvato dal governo lo scorso 20 gennaio: «Sace è autorizzata a svolgere il proprio intervento anche attraverso l’esercizio del credito diretto».

Sace è una società di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, quindi a controllo pubblico, che ha finora assicurato crediti per l’internazionalizzazione. Quando ad esempio un imprenditore italiano trova un cliente straniero intenzionato ad acquistare la sua merce, Sace può garantirne il credito: cioè se alla fine il cliente non paga, i soldi all’azienda italiana li dà l’ente. A questa attività, se il decreto verrà convertito in legge senza stravolgimenti, si aggiungerà a breve quella di banca. Non propriamente un’invenzione, visto che nel mondo le cosiddette Exim Bank spopolano da tempo.
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Nell’Eurozona, per dire, siamo rimasti praticamente gli unici a non averla, ad eccezione della Grecia. Una mancanza rivelatasi talvolta determinante per le aziende nostrane, costrette a combattere con concorrenti capaci di offrire al cliente, oltre al prodotto, anche un canale di finanziamento privilegiato. Resta tuttavia da capire perché un imprenditore dovrebbe preferire Sace piuttosto che una banca tradizionale. Questione cruciale per il successo dell’iniziativa voluta dal ministro Federica Guidi. La Exim Bank tricolore chiederà tassi di interesse più bassi degli altri istituti di credito? E avrà bisogno di garanzie minori per concedere credito? Il vice ministro Calenda non si sbilancia: «Spero di sì, di certo la decisione politica ?è presa», risponde.

La banca per l’export, come un normale istituto di credito, dovrà sottostare alla vigilanza della Banca d’Italia. Che in sostanza la obbliga, per limitare il rischio ?di un eventuale fallimento, a mantenere un certo rapporto tra patrimonio e prestiti. Se dunque Sace vuole diventare un vero volano per l’export, deve poter contare su una bella riserva di quattrini. Ma invece di rafforzare le proprie finanze, la società si sta indebolendo.
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Il 22 gennaio, due giorni ?prima del decreto che annunciava la trasformazione in banca, Sace ha infatti ridotto di circa un quinto il suo capitale sociale, girando proprio alla Cassa Depositi e Prestiti quasi 800 milioni. Poi, per mettere in equilibrio di bilancio, ha emesso obbligazioni per mezzo miliardo. Un prestito su cui ovviamente deve pagare interessi. L’apparente contraddizione si spiega forse così. I principali azionisti privati della Sace sono le fondazioni bancarie (il 18 per cento è in mano a loro attraverso la Cassa). Che certo non fanno i salti di gioia per l’entrata in gioco di un nuovo concorrente. E dunque, non potendo eliminarlo, puntano ?a indebolirlo un po’.