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In una sola giornata, infatti, “Battling Vincent”, Vincent il battagliero - uno dei tanti soprannomi - ha portato a termine un lavoro durato mesi, spingendo alle dimissioni Marco Patuano, il manager che da cinque anni guidava Telecom Italia, e riservandosi così la possibilità di nominare un nuovo numero uno a lui gradito. Sempre lo stesso lunedì, ha incassato il «no comment» del governo di Matteo Renzi sulla manovra, che rappresenta la definitiva presa di potere su un’azienda con 53 mila dipendenti e quasi venti miliardi di giro d’affari, il secondo gruppo industriale tricolore privato dopo la Fiat. E, infine, ha potuto ascoltare la prima ammissione arrivata direttamente dalla voce di Silvio Berlusconi sul fatto che sì, un’alleanza fra le televisioni dell’ex premier e il gruppo parigino Vivendi di cui Bolloré è presidente ci potrebbe stare, anche se la sua famiglia al momento non è «assolutamente» intenzionata a vendere.
Che cosa accadrà domani, e se Vivendi potrà davvero sommare le tv di Mediaset a Telecom, è presto per dirlo. Per Bolloré il succo della trionfale giornata del 21 marzo, però, è che adesso tocca a lui decidere il futuro della compagnia telefonica, intrappolata in una crisi strisciante, determinata dall’incapacità degli azionisti che l’hanno gestita dalla privatizzazione in poi. L’idea diffusa attraverso le indiscrezioni fatte filtrare è creare una media company, capace di portare film, serie tv e sport nelle case attraverso la rete telefonica, facendo concorrenza a quelli che vengono descritti come i futuri dominatori del piccolo schermo, da Netflix in giù. Anche qui, la prudenza è d’obbligo, a cominciare dai dubbi sulle reali intenzioni di Berlusconi di cedere il controllo di Mediaset, per arrivare agli interrogativi degli esperti, i quali si chiedono come mai Vivendi - che si è concentrata nella produzione di contenuti tv, cedendo altri operatori telefonici - voglia un gruppo che, come Telecom, soffre di debiti elevati e ha la necessità di fare ingenti investimenti per portare la banda larga ai propri clienti. Le strategie di Bolloré sono «misteriose», ha scritto il “Financial Times”.
Padrone con la liquidità degli altri
Va detto che Bolloré ha un punto di forza: a differenza di chi l’ha preceduto, in Telecom ha scommesso somme ingenti, accaparrandosi il controllo e mettendosi nelle condizioni di poter dettare le regole. Dopo aver acquistato in giugno una quota dell’8,4 per cento dalla spagnola Telefónica, ha rastrellato altri pacchetti, raggiungendo una partecipazione del 24,9 per cento. Ai valori di Borsa, quel pacchetto vale oggi 3,5 miliardi. Una cifra consistente, se si guardano le altre partecipazioni del gruppo transalpino. Per farlo, bisogna tornare alla Financière de l’Odet e al suo ultimo bilancio disponibile, relativo al 2014. L’impero Bolloré spazia in un’ampia gamma di attività che comprende la gestione di porti in concessione, in Francia e in diversi Paesi africani, la proprietà di infrastrutture per la logistica petrolifera, la costruzione e l’esercizio della rete ferroviaria del Camerun e della linea tra Costa d’Avorio e Burkina Faso. Nessuno di questi business, tuttavia, ha le dimensioni delle prede inanellate negli ultimi anni da Bolloré, che prima ha conquistato il colosso della pubblicità Havas, poi ha comprato il 14,5 per cento di Vivendi - proprietaria della tv francese Canal Plus - e, infine, attraverso Vivendi ha iniziato il rastrellamento di Telecom. Basta un’occhiata alle tre prede per intuire il salto di qualità rispetto alle attività storiche della Odet, il cui giro d’affari non supera gli 8,5 miliardi. Ebbene, Havas ha contabilizzato nel 2015 ricavi per 2,2 miliardi, Vivendi superato i 10,7, Telecom è arrivata a 19,7. Come ci è riuscito? Le ragioni sono due.
La prima è la lunga catena di scatole societarie che permette a Bolloré di comandare sul suo gruppo, usando «soldi altrui», come ha notato Massimo Mucchetti, presidente della Commissione Industria del Senato. In cima alla catena societaria c’è, infatti, una holding che si chiama Sofibol, dotata di capitali propri per appena 180 milioni. Al di sotto c’è un reticolo di partecipazioni quotate e non dai nomi che richiamano le ambizioni imperiali francesi - dalla Compagnie du Cambodge alla Imperial Mediterranean - in cui, spesso, le società figlie detengono azioni delle società madri. Un esempio arriva proprio dalla Financière de l’Odet: il capitale è diviso in 6,5 milioni di azioni, ben 2,3 milioni delle quali sono però detenute dalla Odet stessa e dalle sue controllate. Un ulteriore dato che suggerisce come a comandare sia lui, Bolloré, ma i soldi siano in gran parte degli altri, è quello dei profitti del gruppo Odet: sui 438 milioni di euro di utile netto complessivo del 2014, gran parte - ben 272 milioni - sono infatti di competenza degli azionisti di minoranza.
La seconda ragione che spiega la potenza di fuoco di Bolloré deriva dall’accordo sottoscritto nel 2014 da Vivendi e dalla spagnola Telefónica, all’epoca azionista di Telecom Italia. Vivendi ha ottenuto la sua prima quota di azioni nella società italiana cedendo agli spagnoli la compagnia brasiliana Gvt, e ottenendo in cambio ulteriori risorse per 3,6 miliardi e una quota dello 0,95 per cento della stessa Telefónica. Qui è avvenuta una delle prime rotture con Patuano.
Appena entrata nell’azienda italiana, infatti, Vivendi ha iniziato il pressing perché Telecom cedesse a terzi la controllata brasiliana Tim Brasil, che nel grande Paese sudamericano è una forte concorrente di Telefónica e che genera profitti di rilievo. Una manovra che ha suscitato dubbi, se si considerano due fatti: il primo è il ruolo avuto dagli spagnoli nel pilotare l’ingresso di Bolloré in Telecom; il secondo il fatto che, nel 2017, la stessa Telefónica potrà tornare azionista di Telecom Italia, acquistando una quota stimata nel 5 per cento, oggi parcheggiata in una banca d’affari. Di qui i sospetti: «Quando era azionista di Telecom, Telefónica non poteva vendere Tim Brasil, perché sarebbe stata in conflitto d’interessi, essendo anche il primo operatore sul mercato brasiliano. Ora potrebbe essere Bolloré a vendere il Brasile e poi, magari, a far rientrare gli spagnoli in Telecom», osserva una fonte vicina al governo italiano. Ecco perché a Palazzo Chigi temono che pure Bolloré, con l’alleato Telefónica, freni lo sviluppo di Telecom Italia e dia semplicemente il via a un selvaggio piano di tagli (un analista ha ipotizzato 17 mila esuberi). Si spiegano così due ipotesi che circolano. La prima è che il fondo F2i, partecipato dalla Cassa depositi e prestiti, possa entrare con una quota nelle torri di trasmissione del segnale radio, che Telecom pochi giorni fa stava per cedere a Mediaset. La seconda è un’operazione che sottragga a Telecom la rete fissa, portandola in mani pubbliche. Il problema è il prezzo: 14,9 miliardi. E il fatto che a decidere di vendere e a che prezzo dev’essere lui, Vincent il battagliero.