«Usiamo questo shock per far cambiare rotta alla nostra economia. Ora»
Accesso alla conoscenza, imprese di cura delle persone, più potere ai giovani. La crisi può trasformarsi in un'opportunità unica per cambiare alla radice i problemi del nostro sistema
Siamo pronti e capaci di immaginare un mondo diverso, più giusto, e poi, come scrive Arundhati Roy, «a lottare per averlo»? Oppure, ci accomoderemo ad un “ritorno alla normalità”, come se il mondo disuguale e insostenibile da cui veniamo fosse l’unico possibile?
Sarebbe paradossale non apprendere da queste settimane, non guardare in faccia, per cambiarli, i fattori che hanno aggravato gli effetti della crisi Covid-19: ritardi e debolezze dei metodi di ricerca; una cooperazione internazionale ed europea arrivate sfiancate all’appuntamento; un terzo dell’occupazione privata precaria o irregolare; dieci milioni di adulti italiani senza i risparmi per reggere tre mesi senza reddito; un terzo delle piccole e medie imprese vulnerabili e sorrette da bassi salari; un sistema sanitario indebolito prima di tutto nei suoi presidi territoriali e piegato alle logiche della privatizzazione, centrate non sul benessere collettivo ma sul profitto di pochi; un sistema di welfare privo di una logica universale e schiacciato in una dimensione di contenimento del disagio, non di emancipazione delle persone e tra esse le più fragili e in difficoltà; una massa di migranti senza diritti; amministrazioni pubbliche disabilitate a dialogare con i cittadini e ad esercitare discrezionalità.
Sarebbe paradossale di fronte a tutto questo non utilizzare lo shock per cambiare rotta. Eppure è ciò che rischia di avvenire. Lo leggiamo in tanti segnali. Nella resistenza a finanziare - ci auguriamo superata - un reddito di emergenza per chi è privo di ogni tutela. Nella retorica sullo smart working e sull’insegnamento a distanza, cieca alle condizioni necessarie affinché queste digitalizzazioni siano di qualità ed eque. Nella stessa retorica delle “disuguaglianze”, accompagnata dalle logiche compensative del passato, non dalla reale volontà di cambiare gli equilibri di potere. Nella resistenza a costruire la ripresa delle attività attraverso una governance condivisa fra imprese, lavoro e governi locali. Nella “cucina” dei sacrosanti provvedimenti per dare liquidità alle imprese, disattenti alle stesse imprese e all’opportunità di costruire un loro patto con la società che promuova obiettivi ambientali e sociali. Nel comportamento schizofrenico verso tutto ciò che è pubblico, riscoperto come essenziale per le nostre vite, ma subito confinato da molti in un ruolo di passivo esecutore e finanziatore di interventi o di mega-piani-di-spesa decisi da pochi, fuori da ogni logica di confronto aperto e trasparente. Nel pensare al civismo attivo e al privato sociale non come co-attori di cambiamento verso una società più giusta, con al centro le persone, i loro diritti e la loro felicità, ma in un ruolo ancillare, di sostituzione e compensazione (a bassi salari) del welfare pubblico. Nel dare per scontato che i tanti bisogni sociali prodotti dalla crisi vengano in gran misura scaricati sulle donne, facendo passi indietro nelle relazioni di genere, con un’esasperazione delle asimmetrie di potere a favore dei maschi nella distribuzione dei compiti di cura.
Non c’è nulla di irrecuperabile. Certo, la crisi distrugge capacità produttiva e carica le pubbliche finanze di nuovi grandi oneri, richiedendo una politica che redistribuisca in modo equo questi costi. Ma, al tempo stesso, la crisi destabilizza vecchi equilibri e avvia tendenze non univoche, piene di nuove biforcazioni. La rottura delle catene internazionali del lavoro può penalizzare le nostre esportazioni, ma può anche offrire opportunità alle produzioni nazionali. La consapevolezza del ruolo dei “lavori materiali”, finalmente riconosciuti come “essenziali”, può accrescere il loro potere negoziale. La modifica delle preferenze a favore di servizi fondamentali e di prodotti di prossimità (agro-alimentare, turismo, energia) apre opportunità di nuove imprese e buoni lavori, anche in aree marginalizzate. L’accelerazione del ricorso al digitale se da una parte può accrescere la già grande concentrazione di conoscenza, potere e ricchezza nelle mani di mega-imprese digitali e produrre un’ulteriore frammentazione del lavoro, d’altra parte può essere impiegata per accelerare la ricerca, per implementare autonomia e responsabilità delle persone che lavorano, per promuovere nuove forme di creatività, conoscenza e mutualismo. Il ritorno di centralità di ciò che è pubblico, può evolversi in uno Stato supino alle decisioni pseudo-tecniche di pochi nascoste sotto il velo del mercato, oppure in uno Stato autoritario, punitivo e dirigista, oppure, ancora, in una piattaforma democratica dove si manifestano e trovano intersezione le preferenze del lavoro e della cittadinanza, del privato e del sociale, attraverso pubblico confronto.
Per prendere a ogni bivio la strada della giustizia sociale e ambientale bisogna lavorare sodo, sapendo che la normalità di prima se per moltissimi era brutta non lo era per altri. Certo non per i cinquemila più abbienti che hanno visto salire dal 2 al 7 per cento in venti anni la propria quota di ricchezza nazionale. Per i rentier beneficiari di mille sussidi e benefici fiscali. Per chi, nel pubblico, nel privato o nel sociale, fa da intermediario di risorse pubbliche mal spese. Per i monopoli legali e per quelli criminali. Sono, questi, gli avversari di ogni cambiamento. E per batterli, nel confronto acceso, nel conflitto, che è l’anima della democrazia, occorrono la visione realistica ma emozionante di un futuro più giusto, proposte concrete e una capacità di mobilitazione organizzata.
Noi del Forum Disuguaglianze Diversità, in questi 60 giorni di crisi abbiamo provato a dare un contributo sulle urgenze di breve termine, ma intanto siamo andati cercando una chiave per leggere e affrontare la nuova fase. Sappiamo che l’incertezza è ancora grande e radicale, ma chiare sono le disuguaglianze e le debolezze messe in luce dalla crisi e si intravedono le nuove tendenze. E allora, in un Documento “Durante e dopo la crisi: per un mondo diverso”, abbiamo potuto individuare cinque obiettivi strategici. Eccone i titoli.
Primo: dobbiamo accrescere l’accesso alla conoscenza, perché qui sta il balzo che può rimettere in moto creatività, mobilità sociale e innovazione, e per farlo dobbiamo giocarci le “casematte” pubbliche del paese, università, scuola, imprese pubbliche, gestione pubblica delle risorse digitali.
Secondo: dobbiamo rendere pagante la nuova domanda di servizi e beni fondamentali che può dare vita a buone imprese e buoni lavori nella cura delle persone, nell’educazione, nella casa, nella cultura, nella mobilità, nella filiera agro-silvo-pastorale e alimentare, nell’energia, nel turismo, investendo tutte le aree marginalizzate con strategie partecipate di territorio.
Terzo: dobbiamo restituire dignità e potere al lavoro, migliorarne la tutela e favorirne la partecipazione strategica.
Quarto: dobbiamo aggredire la crisi generazionale, accrescendo il potere dei giovani, non solo sul fronte educativo, ma anche in termini di ricchezza su cui contare nel passaggio all’età adulta e di abbattimento degli ostacoli nell’accesso a ruoli chiave nelle classi dirigenti del paese.
Quinto: dobbiamo realizzare una “rivoluzione operativa” nelle pubbliche amministrazioni che sfrutti l’opportunità irripetibile del rinnovamento generazionale che sta per avvenire fra le sue fila.
Leggeteci, confrontiamoci e integriamo questi obiettivi con altre idee e proposte. E assieme affrontiamo il tema, non solo italiano, di capire con quali alleanze e con quale mobilitazione organizzata promuovere questa visione e queste proposte. E di quali soggetti politici possano raccogliere questa bandiera.