L’economia gira al minimo per le ricadute della guerra in Ucraina. E dopo la svolta di politica monetaria della Bce l’esecutivo deve affrontare anche l'aumento dei tassi. Ma sul futuro del Paese gravano i problemi di sempre: poca crescita e debito pubblico troppo elevato. Per questo Roma è tornata nel mirino degli investitori internazionali

Lo chiamavano «effetto Draghi» e andava molto di moda. Non solo dalle nostre parti, nei salotti politici dell’Italietta provinciale. Giusto un anno fa, per dire, il Financial Times dedicò un lungo articolo al tocco magico del capo di governo di Roma, capace da solo di domare lo spread grazie alla sola forza della sua autorevolezza.

 

Negli stessi giorni, la grande banca d’affari Goldman Sachs in un report destinato ai suoi clienti era arrivata a spiegare che i mercati finanziari si erano ormai abituati a valutare il rischio sui titoli pubblici italiani «in base alla fiducia che ripongono nell’abilità del nuovo presidente del Consiglio di contenere il rischio politico». Mario Draghi diventò così SuperMario, il beniamino degli investitori internazionali chiamato dai partiti a Palazzo Chigi per evitare guai peggiori.

 

L’incantesimo si è rotto giovedì 9 giugno, quando la presidente Christine Lagarde ha annunciato il cambio di rotta della Bce. Una svolta di certo non inattesa, con lo stop agli acquisti dei bond dei paesi dell’Eurozona che spiana la strada, a partire da luglio, a un primo ritocco all’insù dei tassi d’interesse. L’impennata dell’inflazione, mai così elevata da oltre tre decenni, ha costretto le banche centrali a intervenire, la Fed americana prima ancora di quella europea, dopo che per mesi avevano sottovalutato il problema.

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Le parole dell’ex ministra francese, criticata da mezza Europa (Italia in testa) per i modi con cui ha comunicato la brusca sterzata, hanno innescato una tempesta che nei giorni successivi, insieme alle Borse, ha messo sottosopra i mercati del reddito fisso, con gli investitori internazionali pronti a scommettere al ribasso sul rischio Italia. Un copione già visto: i rendimenti dei Btp che si impennano mentre lo spread con i bund tedeschi, in parallelo, torna ad allargarsi, con buona pace dell’effetto Draghi. Che era un mito. E come tutti i miti, anche quello di SuperMario, a un certo punto, fatica a tenere il passo con la realtà.

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Due giorni di febbre alta sulle piazze finanziarie globali hanno infine convinto il consiglio direttivo della Bce ad aggiustare il tiro, annunciando di essere pronta varare nuovi strumenti d’intervento sui mercati per tenere sotto controllo lo spread. Le misure messe allo studio da Francoforte mercoledì 15 giugno dovrebbero servire a evitare un’eccessiva divaricazione tra i tassi dei Paesi finanziariamente più forti (Germania, Olanda e gli altri nordici) e quelli delle economie a debito più elevato, in prima fila l’Italia, ma anche Spagna e Grecia. Resta il fatto che la stretta monetaria varata dalla banca centrale ha sgretolato una volta per tutte le illusioni create da anni di politiche monetarie ultraespansive.

 

Finisce l’era del denaro facile, la bolla si sgonfia e si torna sulla terra. L’impatto con la realtà, sgradevole per tutti, si annuncia particolarmente duro nel caso dell’Italia, che si trova a combattere con i mali di sempre, bassa crescita e debito elevato, a cui si aggiungono le tensioni sui prezzi, che fatalmente riducono il potere d’acquisto dei cittadini e innescano nuove tensioni sociali.

 

La politica dei tassi a zero della Bce ha consentito all’Italia di finanziare a costi bassissimi l’eccezionale espansione della spesa pubblica nei due anni del Covid. In altre parole, il governo ha comprato tempo con i soldi gentilmente offerti da madame Lagarde. Nel 2021, il rendimento medio dei nostri titoli di stato all’emissione è precipitato fino a quota 0,1 per cento. Un minimo storico. E infatti, mentre nel biennio della pandemia il debito pubblico è esploso, passando da 2.410 miliardi (fine 2019) a 2.678 miliardi (fine 2021), nel 2020 la spesa del Tesoro per interessi è addirittura diminuita del 5 per cento circa rispetto al 2019 per poi risalire, ma di poco (più 2,5 per cento), nel 2021.

 

Adesso, però, sui mercati è cambiato il vento. Francoforte non è più disposta a comprare i titoli pubblici degli Stati dell’Eurozona. Questa decisione, annunciata, come detto, lo scorso 9 giugno, avrà conseguenze pesanti soprattutto sull’Italia, di gran lunga il Paese che ha ricevuto i maggiori benefici dai programmi di riacquisto varati dalla Bce a partire dal 2015. Nei prossimi mesi la Banca centrale europea si limiterà a reinvestire i proventi dei bond in scadenza. Di conseguenza, secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, nel 2022 la quota di emissioni nostrane assorbita dalla Bce finirà per dimezzarsi. Questo significa che Roma sarà costretta a trovare nuovi compratori sul mercato e per convincerli a scommettere sul rischio Italia dovrà offrire rendimenti più elevati, in grado anche di compensare un’inflazione che dopo la fiammata di questi mesi ci terrà compagnia ancora a lungo.

 

Non per niente, già lunedì prossimo, il 20 di giugno, il Tesoro metterà sul mercato un Btp con un tasso che verrà adeguato nel tempo in base all’andamento dell’indice dei prezzi. Un titolo di questo tipo potrà senz’altro rivelarsi conveniente per i risparmiatori a caccia di rendimenti più elevati di quelli correnti sul mercato. D’altra parte, però, le prossime emissioni comporteranno di sicuro oneri supplementari a carico delle casse pubbliche su cui peseranno gli interessi maggiorati offerti ai risparmiatori.

 

Al momento non è facile prevedere di quanto aumenterà la spesa per il Tesoro, ma la gran parte degli analisti sottolinea che la vita media residua dei titoli italiani attualmente sul mercato è pari a sette anni. Su questi Btp (in massima parte), Cct e Bot lo Stato paga ancora interessi molto ridotti. Ci vorrà tempo, quindi, prima che le prossime emissioni, quelle a tassi più alti, abbiano un impatto significativo sul costo complessivo del debito. Il problema però resta, se non altro in prospettiva. A maggior ragione per un Paese che negli ultimi anni ha dimostrato di non essere in grado di mettere ordine nel proprio bilancio.

 

Il problema del debito troppo elevato in rapporto al Pil (in Italia siamo al 150 per cento) andrebbe quindi affrontato agendo in primo luogo sul Prodotto interno lordo, con una cura, quindi, che spinga innanzitutto sulla crescita.

 

Qui però le incognite sospese sul futuro del Paese sono a dir poco pesanti. L’impennata dei costi dell’energia ha infatti di molto peggiorato lo scenario dell’economia reale. Bankitalia ha appena rivisto al ribasso le proprie stime sull’andamento dell’economia italiana. In base a questo aggiornamento, nel 2022 difficilmente l’aumento del Pil andrà oltre il 3 per cento, per effetto, più che altro, di una sorta di trascinamento della ripresa post pandemia del 2021 (più 6,6 per cento), mentre nel 2023 non si andrà oltre l’1,6 per cento. Sul futuro prossimo però c’è grande incertezza. La possibile interruzione, già in estate, delle forniture di gas da parte della Russia finirebbe per azzerare la crescita del Pil, che nel 2023, secondo gli analisti della Banca d’Italia, andrebbe addirittura in negativo dell’1 per cento.

 

I margini d’incertezza di queste previsioni sono molto ampi. Di certo, un gran numero di settori industriali sono già in grave difficoltà e con loro anche milioni di famiglie costrette a tagliare le spese per far fronte all’aumento delle bollette. Questo significa che con ogni probabilità il governo sarà costretto a rinnovare aiuti e bonus varati in questi ultimi mesi. Nel frattempo, partirà anche la campagna elettorale in vista delle elezioni politiche della prossima primavera. E insieme alla propaganda aumenteranno anche le manovre dei partiti per distribuire mance e prebende varie. Di conseguenza salirà anche il tasso di litigiosità all’interno dell’esecutivo: non proprio la situazione ideale per gestire una politica di bilancio rigorosa.

 

Va detto che quest’anno le uscite supplementari sono state fin qui finanziate senza creare nuovo deficit. Adesso però sono quasi esaurite le risorse accantonate grazie alle entrate fiscali superiori al previsto del 2021. C’è poco da fare, allora. Una volta raschiato il fondo del barile, il governo non potrà fare altro che spendere soldi presi a prestito. Insomma, siamo daccapo. Con o senza SuperMario.