Da anni fanno pressioni sui governi di tutto il mondo per imporre leggi contro chi si scambia musica on line. Risultato: la pirateria è un po' calata, ma ora le major sono più detestate dei pedofili. E' un successo?
La pirateria on line? "Non si può combattere. Le major dovrebbero accettare la realtà e sfruttare il fenomeno a loro vantaggio". è la voce di Dave Kusek, vicepresidente del Berklee College of Music e co-autore di "The future of Music", che suona fuori dal coro mentre si consuma il conflitto globale tra l'industria della musica e chi la scarica illegalmente in Rete. Ultimo atto: la chiusura di Megaupload, sito a cui 150 milioni di utenti nel mondo affidavano i proprio file e che le autorità Usa hanno sequestrato con un'operazione senza precedenti.
In guerra contro i nostri ragazzi
D'altronde è contro la pirateria digitale che l'industria punta il dito quando si parla di crisi del settore. Prova ne è il Digital Music Report 2012, ultima edizione dell'annuale ricerca realizzata per conto della Federazione internazionale dell'Industria Fonografica (Ifpi): "Più di un utente su quattro (28 per cento) fruisce illegalmente di musica on line". E se è pur vero che, nel 2011, il mercato digitale globale è salito dell'8 per cento per superare i 5,2 miliardi di dollari di ricavi, altrettanto vero è che "la crescita registrata non riesce a temperare la perdita del mercato fisico, che prima reggeva il 40-50 per cento del fatturato", come dice Alberto Cusella, discografico con alle spalle vent'anni in Warner. "La musica non è in crisi. A essere in crisi è il mercato", aggiunge.
In questo contesto, la linea d'azione che l'Ifpi caldeggia presso i governi è orientata alla repressione, vuoi con il blocco dei siti che consentono il download illegale, vuoi con "risposte graduali", dove l'intervento contro l'utente che scarica materiale illegale è preceduto da alcuni avvertimenti (come in Francia). Per non farsi mancare nulla, infine, l'industria auspica la stretta "cooperazione" sia con i fornitori di servizi Internet (Isp) - visti come custodi dell'accesso alla Rete e quindi investiti di responsabilità - sia con altri "intermediari". Tra questi figurano i motori di ricerca, che non dovrebbero più fornire link a siti con contenuti illegali, e gli inserzionisti, che consentono ai pirati (consapevolmente o meno) di guadagnare con la pubblicità.
La reputazione perduta delle major Stando al rapporto delle major, in Francia, grazie al severo codice Hadopi, il download illegale sarebbe diminuito del 26 per cento. Ma a che prezzo? Per il cantautore Max Pezzali, che la Rete la frequenta dal '94, "il pubblico ha imparato a odiare l'industria musicale, che nella scala di fastidio provocato nell'utente medio è subito dopo i pedofili e appena prima di Schettino". Non proprio lo stimolo migliore per convincere la gente ad andare a comprarsi i cd.
L'errore è stato, per Pezzali, reprimere invece che "cavalcare la rivoluzione come ha fatto Apple con il suo negozio online iTunes, dove la casa di Cupertino ha vinto e cambiato il settore spostando il gusto del possesso dal software (le canzoni) all'hardware (l'iPod)". Per inciso, l'iTunes oggi è presente in oltre 50 Paesi.
Quello dell'industria discografica sarebbe stato insomma "un clamoroso autogol, uno spararsi sui piedi" cui sembra difficile porre rimedio. L'unica speranza per le major sarebbe "far convergere il mondo digitale e quello reale", argomenta Pezzali. Ma l'industria è pronta a farlo? "Pronta nel senso che è morta", ironizza l'artista: "è uno zombie che lotta per non soccombere ma sbaglia restando focalizzato sulla salvaguardia del "catalogo", di fatto viaggiando a vista senza alcuna vera pianificazione".
Sarebbe invece il caso di cambiare rapidamente pelle, come in ogni rinascita che si rispetti: "Il futuro del business per le Recording Company tradizionali", conferma Kusek, "risiede nel fornire consulenza e supporto anche economico all'artista per marketing, immagine, promozione e quant'altro. Resta solo da vedere se saranno le vecchie label a evolversi per assolvere a questo compito, oppure se nuove aziende faranno la loro comparsa e ne prenderanno il posto".
L'incerto cammino verso la terza via. Fin qui i termini di una lotta senza quartiere. Eppure esiste una terza via, ovvero il modello economico dei servizi in abbonamento. Piace alle major, che lo citano nel loro rapporto e portano tra gli altri l'esempio di Rara.com, azienda che ha annunciato lo streaming di 10 milioni di brani in 20 paesi, offerto con il benestare di Universal Music Group, Sony Music Entertainment, Emi Music, Warner Music Group. E piace anche agli utenti: "Servizi a pagamento come Spotify, Mog o Rhapsody riscuotono un successo crescente", conferma Kusek: "Ci vuole ancora del tempo, ma nel futuro chiunque abbia accesso alla Rete potrà fruire in qualsiasi momento e dovunque si trovi di musica on demand in alta qualità e a basso prezzo, da ascoltare attraverso terminali fissi o mobili". Le premesse ci sono. E se tale futuro dovesse realizzarsi "la pirateria, perderebbe ragion d'essere, i costi sarebbero contenuti e, se gli accordi saranno strutturati nel modo corretto, anche gli artisti avrebbero finalmente guadagni più giusti".
L'artista e il Web, nel bene e nel male Già, gli artisti: si dimentica spesso che "circa il 95 per cento dei musicisti legati al sistema delle major non guadagna abbastanza con la propria musica da poterci vivere". Chi ci prova, deve ancora rassegnarsi a vivere "on the road", sfruttando i concerti e il merchandising oppure scrivendo canzoni che altri canteranno.
Il Web, che non è solo pirateria, offre oggi a chi ha talento nuove possibilità di emergere e guadagnare. "Un palcoscenico privilegiato è Soundcloud, social network musicale che, per esempio, consente ai dj di testare on line brani prima di inserirli nelle performance live", spiega Pezzali, "e anche il servizio Indaba è utilissimo. Metti a disposizione di tutti le tracce e poi chi vuole ci lavora sopra con altri suoni".
Le major, a loro volta, imparano faticosamente a fare scouting in Rete: "Sarebbe assurdo se un direttore artistico non passasse 24 ore su YouTube a cercare la prossima star", dice Cusella, mentre Kusek incalza: "Google, Twitter e Facebook rendono più facile anche la verifica del background di un artista, del successo che ha saputo ottenere da solo".
Così accade che il digitale sia anche il modo migliore per far arrivare qualche creazione nostrana Oltreoceano. Dice Charlie Amter, giornalista musicale americano appassionato dell'Italia, che"canali come YouTube hanno permesso a produttori di musica elettronica, come ad esempio i Crookers, di approdare al mercato statunitense e ottenere successo".
La Rete porta in dote straordinarie opportunità per chi fa musica, ma anche significative complicazioni: "Adesso puoi fare un disco in casa, bypassando la trafila delle case discografiche, ma va sempre considerato il rovescio della medaglia", ammonisce Cusella, "perché il sovraffollamento della scena dovuto alla facilità con cui tutti possono fare musica riduce paradossalmente gli spazi concreti per i giovani, di fatto danneggiandoli".
E non è tutto. C'è anche un problema di "filtro": "Il rischio dei prodotti molto osannati in Rete è che arrivino al mainstream non ancora maturi o, paradossalmente, già bolliti", spiega Pezzali, "perché il successo ottenuto può dipendere da fattori non replicabili nel mondo reale. Insomma, il social network non sostituisce lo spazio per suonare".