La scrittrice ha vinto il premio per il suo nuovo romanzo, 'Il cardellino', uscito qualche mese fa in Italia. Un inno a New York, città-mondo bellissima e crudele. E un catalogo dei traumi e delle paure dell'Occidente post 11 settembre
“Era un genio raro. Una star della letteratura”. Questo il giudizio di un ex professore di Donna Tartt, fresca vincitrice del Pulitzer per il romanzo Il cardellino, che fu sua allieva al college. Già da ragazza (in quegli anni, diventò amica di un altro paio di geniacci, Breat Easton Ellis e Jonathan Lethem) Donna era già quel che gli americani dicono un tipo uncompromising: decisa, coraggiosa, dotata di una certa propensione al rischio. E così è stato fino ad oggi il suo percorso letterario: fuori dagli schemi, vincente ma pericoloso. Il primo romanzo, Dio di illusioni, cominciato nel 1986, uscì nel 1992. Il secondo, Il piccolo amico, nel 2002. Il terzo, Il cardellino, è stato pubblicato in America nel 2013 e da noi qualche mese fa. Tra un romanzo e l'altro (i primi due sono stati bestseller negli Usa) passano dieci anni o più. Non l'ideale per le grandi editrici americane, colossi del marketing a cui piace battere il ferro del successo finché è caldo. Ma l'ideale per Tartt, che costruisce romanzi fiume complessi come architetture e non certo instant-book.
Così è per Il cardellino, questa nuova e stupefacente storia che si è meritata il premio Pulitzer.
Raccontarne la trama è rovinare la sorpresa a chi non l'ha letto; non perché sia un giallo, anche se nel mix di generi con cui Tartt gioca c'è, ovviamente, anche qualche tocco di crime novel. Solo perché la storia ha snodi inaspettati e richiede, da parte del lettore, una disponibilità totale a lasciarsi trasportare, ad affidarsi alla voce del narratore. Schermata-04-2456763-alle-10-04-50-png Il protagonista è un adolescente di nome Theo Decker. Newyorkese doc, vive con la madre dopo che il padre alcolista se n'è andato di casa. Resta coinvolto in un attentato al Metropolitan Museum e le schegge di quella violenza insensata a uomini e cose resteranno nella sua anima fino all'età adulta. Finisce a Las Vegas, dove frequenta una scuola che è lo specchio di una città senza radici, poi torna a New York e si inventa antiquario di successo. Ha un amore infelice. Un amico di origine russa che lo tradisce. Un dolore che non lo lascia tranquillo e una lunga, ininterrotta propensione per alcool, droghe e psicofarmaci.
La sua vita si intreccia con quella di un quadro famosissimo, The Goldfinch (Il cardellino) di Carel Fabritius, un capolavoro dell'arte olandese del Secolo d'oro. Nel seguire la vita di Theo, Tartt ci racconta New York e Las Vegas, i due poli dell'America. Sulla costa est, la città delle prime immigrazioni e dei ricchi d'origine olandese e britannica che ammassarono al Metropolitan i capolavori che avevano comperato in Europa, massimo emblema del loro lignaggio nel Nuovo Mondo. A ovest, frontiera di tutte le frontiere, la capitale del gioco d'azzardo, dell'estetica del falso e delle ballerine di lap dance. Costruita sulla sabbia, minacciata dalla sabbia e fatta della stessa inconsistente e letale materia del deserto. Due poli opposti solo apparentemente.
Perché da un luogo all'altro Theo si porta addosso la stessa condanna, quel rumore sordo della solitudine che si può solo attutire, per un po', con la sostanza giusta. Inno all'America e inno a New York, città mondo bellissima e crudele, piena di segreti come in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Il cardellino è un catalogo delle paure e dei traumi dell'Occidente post 11 settembre. E una preghiera sul potere che ha l'arte. Non certo di salvarci, ma di rendere più lieve il nostro passaggio su questa Terra.