“È il luogo più pubblico che esista”. L'artista difende il suo lavoro per Vuitton e risponde a chi lo accusa di aver tradito la sua idea di arte e di essersi “venduto” ai privati

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«Ma questa è una storia vecchia quanto l’arte!», ride Daniel Buren di chi l’accusa di aver tradito gli ideali di gioventù accettando di progettare installazioni per vetrine e boutique di Hermès o Vuitton nonché una delle sue più spettacolari e affascinanti opere nella museale Fondation che Vuitton su progetto di Frank Gehry ha inaugurato un anno e mezzo fa nel parigino Bois de Boulogne.

Proprio lui, l’artista radicale che negli anni Sessanta in tempi già rivoluzionari fece un’ulteriore personale rivoluzione rifiutando tutti i meccanismi del mercato dell’arte. Niente opere, né disegni. Niente studio ma nomadismo. Niente botteghe, schiere di assistenti, maquette. Lavori solo in situ, effimeri o permanenti. Regole degne di un dogma che stabilivano la precisa dimensione delle strisce (8,7cm) che divennero la cifra distintiva e il modulo di ogni sua costruzione. E infine persino insofferenza al sostantivo artista: «sono un lavoratore delle arti visive. Non mi piace essere confuso con cantanti attori e premi Oscar». Punto.

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Magari fu proprio quel rigore a renderlo l’artista più stimato da François Mitterrand presidente che nel 1986 gli consegnò il rifacimento della corte del Palais Royal provocando un dibattito che superò i confini di Francia. Ma anche uno degli artisti contemporanei più amati dal pubblico che nel 2012 affollò la sua Monumenta al Grand Palais pur di immergersi in quel cartesiano paesaggio di strisce e colori.

Un grande costruttore di immagini che presto (dal 23 giugno) arriverà anche a Roma in un luogo simbolo come il Palatino per l’attesa mostra “Par tibi, Roma, nihil”: corpo a corpo tra memoria storica e contemporaneità.
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Mentre a Parigi il corpo a corpo è tra la natura e l’artificio in questo “Observatoire de la lumière” che trasforma in cervi volanti le dodici vele del mirabolante edificio di Frank Gehry e che è costato cinque settimane di lavoro su 7000 metri quadri di superficie con 3600 tessere di vetro da ricolorare. Una titanica fatica che durerà solo pochi mesi (dicembre 2016) ma che lascia un importante catalogo e un “making of” degno di quella mostra che in questi giorni L’Espace Vuitton di Venezia ha allestito in contemporanea con la Biennale Architettura (fino al 26 novembre). Così in nome di quei vetri che mescolano il blu del cielo parigino con il giallo delle vetrate lanciando lampi di verde su persone e cose, Daniel Buren spiega perché abbiamo bisogno di “arte pubblica”.

Signor Buren lei che ha sempre difeso l’arte pubblica, ha rifiutato di vendere in gallerie disegni, progetti o foto da qualche hanno collabora con un polo del lusso. È un ripensamento?
«No. Io sono sempre lo stesso. Il mio lavoro è sempre lo stesso. E soprattutto l’arte è sempre la stessa. I miei interventi per Vuitton non sono prodotti ma lavori in situ destinati a una fruizione pubblica. E c’è qualcosa di più pubblico di una vetrina?»

Pur sempre vetrina di un prodotto di lusso.
«Il prodotto appunto, non la vetrina. Io non avrei mai accettato di disegnare scarpe o borsette. Ho accettato di lavorare in uno spazio con i miei metodi di sempre. Molti di quei passanti che vedono la mia opera probabilmente non metteranno mai piede in un negozio Vuitton. Ma ci può essere qualcosa di più interessante per un artista di uno spazio che si affaccia su strade affollate? Un luogo dove proporre l’opera gratuitamente allo sguardo di milioni di persone e a un pubblico indifferenziato e trasversale che sarebbe molto difficile raggiungere altrimenti? Nessun museo riesce ad avere un raggio d’azione così ampio, perché un museo resta comunque un luogo chiuso e a pagamento. Mi piace riflettere su questo paradosso: la vetrina del lusso che nello stesso tempo è il luogo di massima democrazia per l’arte».

Eppure il museo, almeno in Francia, è una pubblica istituzione.
«Sì e va difesa nonostante i continui tagli l’abbiano impoverita e resa molto più fragile rispetto alla potenza dei privati. C’è da sperare solamente che il moltiplicarsi di queste grandi fondazioni faccia nascere nello Stato un sano e benefico spirito competitivo».

Daniel Buren alla Fondation Vuitton
A proposito di competizione, non pensa che Frank Gehry possa essere disturbato da un intervento così potente sulla sua architettura?
«In realtà all’inizio di questa storia c’è proprio lui. Ci conosciamo da sempre, dall’inizio degli anni Sessanta quando sia io che lui eravamo solo giovani di buone speranze, ignorati dal mondo. Mi chiamò prima dell’inaugurazione, mi fece vedere le terrazze, quello strano modo in cui le vele incorniciavano il cielo e mi chiese un installazione con le mie bandiere. Gli piaceva l’idea del movimento delle bandiere, come per far entrare nel suo edificio “vascello” l’immagine del vento. Io amo molto la sua architettura ma ho le mie idee sull’arte e quindi dissi che non ero interessato alla decorazione, ma avrei accettato se mi avesse permesso di entrare direttamente nella sua struttura».

E lui cosa rispose?
«Letteralmente rispose : “Va bene. È una vita che faccio musei e architetture che poi vengono scompigliati dagli artisti”.Mi chiese solo di aspettare qualche mese perché si rendeva conto che il mio progetto avrebbe radicalmente modificato la sua architettura. In effetti l’ha cambiata molto più di quel che avevo previsto: ha perso peso e sembra volare come una mongolfiera».

Tutto merito del colore. Lei è l’ultimo dei pittori “en plein air” discendente di una gloriosa tradizione.
«Ma se ho sempre lottato contro la pittura! Il colore “en plein air” discende semmai dalla gloriosa tradizione delle vetrate di chiese gotiche, sviluppata qui in grande scala. È un punto d’arrivo di quella ricerca sulla trasparenza e sulle proiezioni della luce che porto avanti da 45 anni. Sono un concettuale».

Un concettuale che usa il colore, però.
«Il solo elemento intraducibile dell’arte visiva. Pensiero diretto che non si può descrivere. Chi dice rosso non dice niente: non quale rosso sia, né se la mia percezione di quel rosso sia uguale alla sua. Il colore è linguaggio a sé. Lavorare con il colore è lavorare con il pensiero puro».