Mostre sulla televisione italiana anni Settanta, il cinema in Germania, le forme dell’immaterialità. La nuova sede della Fondazione è un laboratorio di avanguardia. Miuccia racconta perché è nata. E cosa diventerà
C’è un grande ponte, a Milano sud, che scavalca i binari dello scalo Romana. Ogni giorno è percorso da formiche di tanti colori e fogge, gambe corte e gambe lunghe, corpi snelli e corpaccioni, facce bianche, gialle e nere. Vengono da Palermo, Zurigo, Boston, Tokyo. Dove vanno? Alle redazioni di “la Repubblica” e “l’Espresso”? Al Consolato della Repubblica popolare cinese? A mangiare un samosa al take-away di Sri Lanka? Anche, sì. Ma le formiche più chic girano a destra, verso la Fondazione Prada, dove c’è sempre qualcosa di nuovo e di strano che le aspetta, sotto quella bianca torre angolare progettata, come tutta la cittadella, da Rem Koolhaas architetto in Rotterdam. Sarà presto un altro landmark di questa città dove ci si annoia sempre meno.
Piccoli miracoli. Un quartiere semi-periferico che rinasce grazie alla cultura; a un Comune che, quando non crea, almeno sa ascoltare; a due imprenditori innovativi: Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, coppia del fashion system ma, sempre più, anche del sistema dell’arte. Era un po’ che “l’Espresso” non incontrava Miuccia Prada a tu per tu (la signora non smania per il genere intervista). «Parli a uno», sorride astuta, «e la singola frase estrapolata poi rimbalza per il web e non controlli più niente....».
Signora Prada, la Torre bianca avanza. E intanto avete aperto due nuove mostre, l’americano Theaster Gates e l’angolano Nástio Mosquito. Quand’è che la cittadella sarà finita? «In questi primi 14 mesi di attività della nuova sede di Milano abbiamo proposto una pluralità di mostre e progetti molto diversi tra loro, rafforzando l’offerta culturale della Fondazione. Avremmo potuto aprire la Torre in autunno, ma abbiamo già tanti progetti in arrivo, tra cui una retrospettiva di William Copley organizzata insieme alla Menil Collection di Houston. Presenteremo la Torre, come novità architettonica, nella primavera ’17. Saremo pronti per il pubblico del Salone del Mobile. Per l’estate stiamo lavorando a una mostra importante sulla televisione degli anni Settanta in Italia. A Venezia presenteremo una mostra legata al cinema in Germania. E intanto stiamo discutendo su un altro tema da affrontare in modo trasversale: il Nulla».
Il Nulla? «Sì. Che cos’è il Nulla. Come la creatività si possa realizzare nell’immaterialità e nell’assenza. E come questo possa accadere in uno spazio espositivo. Pensiamo alla musica, alla performance, alla filosofia, ma non solo. Sarà una sorpresa».
Con chi discute queste cose da nulla? «La Fondazione ora ha una nuova struttura, della quale sono molto contenta. Non c’è più un direttore. C’è il team interno della Fondazione, coordinato da Astrid Welter, Mario Mainetti e Alessia Salerno; il Thought Council, un collettivo di voci diverse dal mondo; Germano Celant come Soprintendente artistico e scientifico; e poi ci sono io. Insieme discutiamo dei progetti. E tra le altre cose dibattiamo - anche - del Nulla...».
L’ultima mostra di Edward Kienholz, “Five Car Stud”, tocca temi delicati, la violenza, la donna come oggetto... «Siamo convinti che la cultura può aiutarci a capire i cambiamenti che avvengono in noi e nel mondo. “Five Car Stud” è un’installazione storica degli anni Sessanta che racconta il massacro di un uomo nero da parte di uomini bianchi, l’artista si era basato su un caso di odio razziale accaduto a Los Angeles. La Fondazione vuole confrontarsi con temi rilevanti. Ci siamo anche chiesti cosa significhi presentare nello stesso momento “Five Car Stud” e i progetti di Gates e Mosquito, due artisti black. È politically correct? Se ne parla tanto, di correttezza politica, che a volte condiziona, o addirittura paralizza. L’altro giorno, Nástio Mosquito ha detto: “Tutti ripetono che i cliché sono cose negative, per me invece sono fantastici”... Lui lavora sui proverbi, sulla saggezza popolare senza confini, è interessato alla tradizione condivisa e alle relazioni umane».
Che cosa conterrà la famosa Torre? «La Torre sarà la sede della nostra collezione. Sarà un punto fermo, sempre visitabile, intorno al quale si svilupperanno le mostre temporanee».
La Fondazione è uno spazio privato di uso pubblico. Un’iniziativa no profit diventata attrattore turistico. Cosa ci guadagna esattamente il gruppo Prada? «Lei non ci crederà, ma nella nostra vita il profitto non è certo la cosa più importante. La soddisfazione è quella di fare cose interessanti per me e per gli altri, nella moda e per l’arte. Cose che diano un senso alla nostra esistenza».
Perché proprio l’arte, oltre alla moda? «In realtà la mia formazione culturale è iniziata con il cinema e la letteratura. Ma a metà degli anni Novanta l’amicizia di alcuni artisti e l’opportunità rappresentata dall’avere uno spazio in via Spartaco ci hanno spinto a provare le prime mostre, quasi senza volerlo. Poi è diventato un lavoro, ma tutto è partito da rapporti personali. Per me è stato un learning process, un apprendimento, favorito dall’incontro con gli artisti. L’uso privato dell’arte è un gran piacere, del tutto legittimo. Se si può condividere, molto meglio. Io sono mossa anzitutto dalla curiosità. Uno strumento per indagare il reale».
Perché accennava al cinema? «L’impegno della Fondazione nel cinema risale al 2004 quando abbiamo proposto per la prima volta a Milano il Tribeca Film Festival di New York. Poi è seguita una collaborazione con la Biennale di Venezia per il restauro e la proiezione di film dimenticati della cinematografia italiana, russa e orientale. Con l’apertura della nuova sede milanese abbiamo presentato due rassegne curate da Polanski e Iñárritu. Nella sede di Venezia è in corso fino a settembre “Belligerent Eyes”, un progetto di ricerca sulla produzione contemporanea di immagini. In futuro continueremo ad approfondire questa vocazione sperimentale, insieme a registi internazionali».
Avete studiato la composizione del pubblico di Fondazione Prada? «Il pubblico è molto eterogeneo: dai visitatori americani o asiatici ai cittadini di Milano, da un pubblico più interessato ai linguaggi contemporanei a uno più generalista, dagli studenti a persone più mature. Quello che ci colpisce è l’entusiasmo con cui la grande maggioranza di loro reagisce alle nostre proposte».
Che paradosso: il Comune di Milano ha discusso per anni di un centro di arte contemporanea. Alla fine l’hanno fatto i privati, Prada qui e la Pirelli all’Hangar Bicocca. «È vero. Ma le due cose non sono in contraddizione. Più attori ci sono, più c’è dialogo».
Siete stati tra i primi, nella moda, a incaricare grandi architetti in maniera non episodica. Potenziano l’attrattività del marchio? «Non è questo. Nella vita si fanno attività che si pensa siano rilevanti e necessarie, e perciò appassionanti. Non tutto viene scelto in chiave strategica».
Koolhaas e Herzog & de Meuron sono ormai gli architetti principali del gruppo Prada? «Sicuramente continuiamo a collaborare. Siamo amici, c’è stima».
Perché Prada piace tanto nel Far East? «Non saprei dire. E non so se siamo più famosi degli altri. I giovani asiatici sono curiosi delle novità e attenti alla qualità. Milano, in questo momento, forse è più vivace e quindi più attrattiva?».
Come individuate le città emergenti? «Nel nostro settore sono informazioni che hanno tutti. Però oggi occorre cautela. Si naviga a vista. Il promettente Brasile è calato, la Russia soffre, c’è stata la Brexit, a Parigi è un mezzo deserto per colpa degli attentati. Tanti modelli sono da ripensare».
Il gruppo Prada ha 11 stabilimenti su 13 in Italia. Vuol dire che è ancora possibile offrire insieme il “designed” e il “made” in Italy? «L’Italia ha notevoli capacità produttive, ma non siamo soli, altre realtà stanno imparando. Io e Bertelli crediamo ancora molto nell’artigianato di qualità. E speriamo in una nuova generazione di giovani. Da fashion designer, io posso organizzare una sfilata in tempi brevi perché ho fisicamente intorno a me alte capacità artigiane. Il laboratorio molto vicino all’ufficio. È un privilegio, oggi».
Prada è un marchio globale presente in 70 Paesi, con 12 mila dipendenti. Di recente avete investito in Galleria Vittorio Emanuele, nella pasticceria Marchesi. Ci tenete ancora alle radici milanesi? «Sì. Io moltissimo. Passo qui gran parte del mio tempo. Viaggia molto di più mio marito».
In che cosa è cambiata, Milano? «Guardi, io non faccio l’opinionista. Sono una persona privilegiata, che non ama dare giudizi improvvisati. Nella parte creativa della città, moda, design, arte, architettura, c’è fermento. Ma io, più che Milano, ho deciso di difendere l’Italia e l’italianità. Per cultura, storia, know-how. Per la forza della provincia. Per la qualità delle nostre piccole città. In Italia siamo democratici e aperti sull’accoglienza, forse più di altri Paesi che ci danno lezioni: di democrazia o di economia».
Milano è la città più europea d’Italia. Per essere una vera global city cosa manca ancora? «La dimensione, la popolazione mista e accettata. Abbiamo delle élite, ma non siamo ancora una metropoli globale».
Dove dovrebbe migliorare? «La qualità dell’aria, la mobilità, una maggiore inclusione delle periferie nella gestione del territorio e nella costruzione dell’idea di una città più grande. Ma non voglio parlare di politica».
Beppe Sala, il neo sindaco, come prima missione estera ha scelto Londra, a colloquio con Sadiq Khan, sindaco musulmano. Una buona idea? «Direi di sì. Ho conosciuto Sadiq Khan a fine maggio, ai Kensington Gardens, alla cena di gala del centenario di Vogue UK. Simpaticissimo».
La Brexit non se l’aspettava? «No. Una pessima notizia. Da europeista convinta adesso temo anche altri referendum, in Austria, in Ungheria. La Brexit sembra sia stata anche un voto dei vecchi contro i giovani, la cosa preoccupa».
Lei non parla di politica e con i media è piuttosto sulla difensiva. C’è un motivo profondo? «Io non temo il rapporto con i media, e non è vero che detesto le interviste. Ma è irrisolto il tema dell’autenticità di ciò che si dice. In un mondo dove sono in aumento le forme di censura, se non siamo liberi di parlare il nostro pensiero non progredisce, ed è un problema grave. Ma ciò che diciamo non è mai del tutto controllabile. Parlo con uno, ed è come se parlassi con tutti. Si estrapola un’espressione, inizia a viaggiare per il web, e non si colgono più il contesto, le sfumature, la profondità o l’ironia. Se devo stare sulla difensiva, o autocensurarmi, allora preferisco stare zitta».