Ieri erano graffitari. Oggi sono nella stanza dei bottoni di aziende che affidano alla loro penna la sintesi delle riunioni più importanti. Si chiamano facilitatori visuali e raccontano e interpretano. Ma 
non inventano niente: trasmettono i pensieri che sono in campo (Disegni di Cinzia Leone)

Cosa ci fa un tizio in t-shirt che scarabocchia numeri, parole e immagini, mentre i top manager di una multinazionale espongono i dati di bilancio? Sepolte le slide, svaniti i Powerpoint, archiviati come dinosauri i fogli Excel, oggi la sintesi è affidata al “facilitatore visuale”: un mediatore armato di pennarelli e capacità di sintesi che, nei meeting aziendali, nelle conferenze e nei workshop ascolta relazioni e interventi, osserva dinamiche (e talvolta le stimola) e ricostruisce mappe concettuali e strategie.

committente-jpg
Delle parole ormai non si fida più nessuno, nemmeno i comunicatori. Il flusso di coscienza delle aziende, e non solo, è affidato a un mediatore visivo. «La parola non è portatrice assoluta di verità e va in molte direzioni», spiega Andrea Bielli, managing partner di Sevendots, una società di consulenza strategica e marketing. «Il facilitatore visuale scolpisce le idee in qualcosa di fisico e condiviso». E mette tutti d’accordo. Si finisce per affidare a una figura estranea all’azienda la trasmissione di un’idea o di un’innovazione. «Il visual facilitator ha capacità narrative, di sintesi e soprattutto interpretative, ma non inventa: trasmette il pensiero in campo».
Una specie di Michelangelo? In fondo, anche se lui non era il facilitatore visuale di Giulio II, la Cappella Sistina è il più efficace storytelling del suo papato e della cristianità. «Sarebbe rischioso utilizzare Michelangelo in un meeting aziendale come visual facilitator: troppo creativo e poco interpretativo», stigmatizza Bielli, non senza un pizzico d’invidia per Giulio II.
immagine-grande-jpg

Manager e capi azienda che si formano in master all’estero e puntano a conquistare i vertici della loro azienda sempre più rapidamente sono sempre più insicuri. Hanno sempre meno tempo e meno attenzione. E sono schiavi del diktat secondo il quale per convincere il proprio capo a sponsorizzare un loro progetto hanno «il tempo di una corsa in ascensore».

La parola è usurata. Mastichiamo più informazioni in una settimana di quante Dante Alighieri ne abbia assorbito 
visual-facilitator-jpg
 n una vita. Ipnotizzati dalla quantità di segnali che la contemporaneità dei linguaggi e la Rete ci mettono a disposizione, abbiamo sempre più bisogno di mappe sintetiche. «Più che usurata, la parola è sovrausata. Ci sono sempre più persone che parlano comunque molte volte di parola ne basta una sola», commenta Alfredo Carlo, a capo di Housatonic, una delle factory più attive nella visual comunication. La democrazia, in overload di parole e ipnotizzata dalla quantità, ha sempre più bisogno di facilitatori visuali per interpretare il flusso di coscienza delle aziende e fissarlo nel selfie dell’impresa.
Intervista
L'apprendimento è multisensoriale
17/1/2017

Nata negli Usa negli anni Ottanta, la professione del “visual facilitator” ormai in Italia allinea diverse factory di creativi e freelance molto richiesti che lavorano per multinazionali ma anche per società no profit e studi di grandi avvocati. Da noi guadagnano tra gli 800 e i 900 euro al giorno, ma negli Usa anche tremila dollari e in Australia fino a quattromila. In Italia non sono neanche trenta: vengono dal fumetto, dalla pubblicità, qualcuno è laureato in Business and Economics e molti hanno iniziato come writers. «Il rapporto con il graffitismo è tangibile», racconta Alfredo Carlo, «un terzo del mio studio viene da lì. Ma è l’alta qualità del prodotto finale e la ricerca continua, anche stilistica, a fare la differenza».

Il disegno non basta: per governare la Babele della comunicazione e il facilitatore visuale deve conoscere molte 
visual-facilitator1-jpg
lingue. Ne parla cinque Sara Seravalle, architetta, per molti anni attiva nella progettazione partecipata e da cinque anni visual facilitator prima con la Sketchapensieri e oggi con la “Visual stories”. «Capita di partecipare a meeting con interventi in molte lingue ma io preferisco non usare la traduzione simultanea. Per me è importante quello che dicono tanto quanto il tono con cui si esprimono. Quando ho lavorato in Svezia alla rappresentazione della catena del valore dell’Ikea, dovevo sintetizzare il lavoro di un gruppo di cinesi ma, non parlando la loro lingua, mi sono resa conto che non ero parte del gioco: ballavo senza musica. E il risultato non era soddisfacente».

Il facilitatore visuale è anche il frutto di una globalizzazione vorticosa e imperfetta. È come un interprete simultaneo: deve saper entrare in una simbiosi a tempo, ballare seguendo il ritmo dello speaker e, se necessario, fare il contrappunto. Deve diventare il prolungamento dell’oratore, il braccio armato di pennarello del pensiero dell’altro. E deve essere molto veloce, non solo con il disegno ma con la mente, perché tracciare le mappe altrui è un mestiere da geografi ma anche da psicologi. «Sono poche le volte che riceviamo prima una qualche indicazione. Il fascino è catturare tutto in diretta», racconta la Serravalle.

E se il risultato non piace? Se il top manager di turno dal palco strabuzza gli occhi perché la sua conferenza su una nuova linea di prodotto è stata visualizzata come una passeggiata su un ponte tibetano o il lancio di una navicella spaziale? «Ai clienti piace quasi sempre quello che facciamo e avere in un convegno un illustratore che traduce in immagini e sintetizza fa sempre effetto», risponde Sara Seravalle. «Qualche volta ci chiamano perché pensano di ingaggiare un cartoonist ma quando è lì si accorgono che capisce più di quelli che partecipano al meeting. La cosa più facile per un facilitatore visuale è far felici le persone. È uno dei pochi mestieri dove alla fine si viene ringraziati. Il difficile è non innamorarsi di quello che stai facendo per qualcun altro e ricordarsi che è un servizio».

Concorda Alfredo Carlo: «La spettacolarizzazione dei contenuti non deve mai essere fine a se stessa». Funambolo della visualizzazione, in diretta, senza rete e spesso sotto l’occhio della telecamera, il facilitatore visuale è un’opportunità e persino una moda. Dopo il convegno all’azienda non rimane solo la parete istoriata, ma anche il video e un libretto che riporta su carta la sintesi visuale. Dalla carta si prova a sfuggire ma alla carta si ritorna.

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio», recita l’inizio del vangelo di Giovanni. Il verbo, sommerso da aggettivi e iperboli, sembra essere ormai roba d’altri tempi. Morta la retorica e l’oratoria, sono sempre più rari i leader, in politica e in azienda, capaci di catturare le piazze e di far schizzare l’audience. L’incapacità oratoria del leader è lo specchio fedele della sua platea: sempre più distratta, viziata dalla multisensorialità e abituata allo zapping televisivo. Meglio prenderla per il suo verso, allora: quella stessa platea segue con più attenzione e memorizza meglio se può fare zapping tra il palco dove parla il top manager e lo storytelling disegnato dal facilitatore visuale. Difficile darle torto.

Il facilitatore visuale è il simbolo di una resa e insieme di una riconciliazione. L’Italia è stata unita da Dante Alighieri, la Germania da Martin Lutero, il Brasile da Rete Globo e il pianeta dai facilitatori visuali. La parola non conquista e non illumina più e c’è bisogno di tornare ad una comunicazione ancestrale e archetipica: l’immagine. Il linguaggio verbale è comparso alcune decine di migliaia di anni dopo le pitture rupestri e la scrittura solo cinque o seimila anni fa. L’uomo incideva sulle pareti delle grotte paure, divinità e scene di caccia. Prima della parola l’impronta della mano intinta nel sangue dell’animale appena ucciso, poi i simboli e gli ideogrammi, e solo millenni dopo il linguaggio.

Back to the future? Sciamani dei manager, i facilitatori visuali saltano la parola usurata e magicamente ritrovano la sintesi. O piuttosto proiettano ombre nella caverna-azienda per incantare un pubblico incatenato in eterno come i prigionieri della grotta platonica? Se uno di loro potesse sfuggire al meeting e scoprire finalmente la luce del sole, sarebbe capace di tornare a spiegare a pubblico di prigionieri quello che ha appena scoperto? Un bel cerchio a pennarello con i raggi tutto intorno ed è fatta. Quasi un emoticon platonico...

Ma sono tutti grandi disegnatori i visual facilitator? «La qualità del disegno conta enormemente e nel risultato finale deve esserci tutto il contenuto dell’incontro. Ascolto e talento sono doti indispensabili», risponde Alfredo Carlo. Ma il ruolo è più quello di una spugna che assorbe tutto o di un evidenziatore? «È una voce “altra” che aiuta il flusso della comunicazione senza trasferire opinioni personali. È un esperto del processo capace di risolvere la complessità rimanendo parte terza. Se non capisce qualcosa di quello che ascolta, trasferendolo sulla carta evidenzia i buchi della comunicazione». Il facilitatore visuale aiuta a gestire la comunicazione ma non ha un’opinione. È una presenza silenziosa che finisce per occupare la scena con disegni e parole. Ingaggiato per coinvolgere e aiutare a memorizzare, finisce per gestire i conflitti. E quando serve li genera.