Mentre i politici si azzuffano intorno allo ius soli, un'ondata multiculturale sta conquistando la scena italiana. Tra pop e trap, distorsioni e beat-box

Prima è esploso, poi è stato dato per morto, a volte sembra fin troppo vivace. Di sicuro il rap italiano si è trasformato, attraversando questi ultimi trent’anni con cambiamenti che non hanno mai messo tutti d’accordo, neanche all’interno della stessa comunità hip hop. Che adesso affronta una nuova ondata grazie alla creatività e alla rabbia di musicisti con radici fuori dall’Italia, immigrati di prima o di seconda generazione.

Proprio nelle settimane in cui crescono le polemiche intorno alla legge sullo "ius soli", a dimostrare che i giovani cresciuti nel nostro paese sono davvero italiani c'è la colonna sonora dell'estate, guidata da un drappello di rapper che dominano le classifiche italiane anche se l'anagrafe li snobba. Capitanati da Ghali, italotunisino che con il primo disco ha conquistato Roberto Saviano e, su Spotify, in pochi giorni ha superato il record di ascolti di Ed Sheeran. Il punto sul nuovo rap si potrà fare dal 6 all’11 luglio al Porto Antico di Genova, al Goa Boa Festival che vedrà Ghali accanto a nomi affermati come Sfera Ebbasta, Tedua, Dark Polo Gang e Carl Brave x Franco 126.

«L’hip hop è ciò che vivi, il rap è ciò che fai», ha detto il rapper newyorchese Krs One. Ma per non perdere l’orientamento occorre dare coordinate iniziali a queste due definizioni. L’hip hop è un movimento culturale nato nel 1973 nel Bronx di New York tra le comunità latina e afroamericana, in un miscuglio di generi musicali già esistenti (rock, blues, soul, funk) ed etnie differenti. E il rap è solo uno dei suoi quattro elementi, quello che appartiene alla voce. Gli altri riguardano la danza (il B-Boying, cioè breakdancing), l’arte (il Writing) e il DJ-ing. Si parla anche di un quinto elemento, che per qualcuno è il beatboxing (l’arte di riprodurre con la voce i suoni di una batteria), per altri è la conoscenza della stessa cultura rap.
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«Il rap ha molte sfaccettature perché è nato così. Si mette sempre in discussione e forse è anche questa la sua grande bellezza», dice il regista Enrico Bisi. Due anni fa ha girato il documentario “Numero Zero. Alle origini del rap italiano” (dvd Feltrinelli) nel quale racconta la cosiddetta golden age: dalla fine degli anni Ottanta a quella dei Novanta. Anzi, la fa raccontare in prima persona ad alcuni degli artisti più importanti di quel periodo, molti dei quali sono ancora in attività. Si va da Militant A di Assalti Frontali a Tormento e Fish, da Double S a DeeMo.

«Oggi il rap ha molta più visibilità, ma in quegli anni era tutto nuovo», continua Bisi. «C’era un senso di avventura, il desiderio di scoprire qualcosa che nessuno aveva già vissuto, di farlo proprio, crearlo e difenderlo. Chi inizia a fare rap domani sa già che potrebbe avere visibilità. Ieri invece era un’incognita, si faceva e basta. Anche la percezione della società si è modificata. Se vedevi un graffito per strada e cercavi di capire cosa fosse, finivi irrimediabilmente nell’hip hop. Se oggi lo vedi su un treno, puoi pensare che sia stato pagato dalla società di trasporti per abbellire le carrozze. Quindi è cambiato anche l’approccio alla conoscenza di un fenomeno che prima era di nicchia, mentre oggi fa parte della quotidianità».

Nel frattempo, la scena di riferimento si è allargata: «Non c’erano i mezzi che ci sono oggi: se abitavi a Bologna, non sapevi cosa stessero facendo a Torino. Ognuno viveva l’hip hop a modo proprio, pur amando tutti quella stessa matrice. Ma è una famiglia e, come tutte le famiglie, litiga. Poi, all’inizio dei Duemila, qualcosa è successo: alcuni hanno cambiato lavoro, altri genere. Si è chiuso un ciclo importante e c’è stata una trasformazione». Se Jovanotti aveva portato il rap all’attenzione delle masse negli anni Ottanta e gli Articolo 31 avevano proseguito con una serie di hit nel decennio successivo, il nuovo secolo si è aperto con artisti interessanti come Caparezza.
Negli anni il rap è finito nei programmi televisivi più popolari, anche in modo diverso e con personaggi molto distanti: J-Ax (ex Articolo 31) è stato giudice di The Voice of Italy 2015; Jake La Furia è conduttore e spesso ospite televisivo; Moreno e Briga sono usciti da Amici di Maria De Filippi. Ma sono stati, e lo sono ancora, pure gli anni di Salmo, soprannominato “Il profeta del Rap”, di Gemitaiz, MadMan ed Emis Killa. Mecna, molto amato fin dall’esordio, è scomparso dai social per quasi un anno e ha da poco pubblicato il suo nuovo disco “Lungomare Paranoia”.

L’elenco dei rapper italiani noti al grande pubblico è cresciuto in modo esponenziale. Anche grazie a trampolini di lancio che hanno scandalizzato i puristi. Rocco Hunt ha vinto la sezione Nuove Proposte di Sanremo 2014 con “Nu juorno buono” che lo ha fatto conoscere in tutta Italia. Clementino, fresco autore del quinto album, “Vulcano”, ha condotto il Concerto del Primo Maggio a Roma. Sul palco di Piazza San Giovanni, oltre a “Cos cos cos”, ha portato anche la sua versione di “Don Raffaé” di Fabrizio De André, che, nonostante le perplessità iniziali per il confronto con il cantautore genovese, aveva già appassionato la platea dell’Ariston al festival del 2016. Anzi, proprio lo scorso inverno gli è valsa il Premio De André per la «reinterpretazione dell’opera di Fabrizio».

Hunt e Clementino sono anche due dei protagonisti di “Core ’e lengua” (Editrice Zona), il libro fotografico di Gaetano Massa e Pino Miraglia che si presenta come un reportage completo della scena hip hop campana.
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Poi, nell’ultimo anno, c’è stata una nuova ondata, quella del trap, dalla quale sono partiti anche Carl Brave & Franco126 (da poco usciti con il disco “Polaroid”) per spostarsi verso il pop. «Se vogliamo chiamarla trap per darle un’etichetta… Ma è musica, è rap, ed è una delle sue mutazioni». Lo dice Albertino, dj, produttore, conduttore e uno dei primi cultori del rap italiano: a Radio Deejay, dove lavora da più di trent’anni, nel 1994 ha creato il programma Venerdì Rappa, diventato poi One-Two One-Two.

«La grande creatività degli anni Novanta ha lasciato un vuoto», continua Albertino. «Sono stati artisti come Fabri Fibra, i Club Dogo e Marracash a riportare l’attenzione sull’hip hop italiano. E ancora oggi sono tra i più interessanti, tant’è che Fibra è uscito con un disco (“Fenomeno”, ndr) molto bello. Nell’ultimo anno è arrivata questa nuova ondata da tenere d’occhio. Mi fa sorridere l’idea che il rap sia diventato di massa, di moda, ma bisogna imparare ad ascoltare senza pregiudizi». I più interessanti? «Tra i giovanissimi c’è Sfera Ebbasta. E Ghali che trovo interessante, intelligente e innovativo. Anche Laïoung mi piace molto, e poi Izi e Tedua. Sono tutti di Milano, ma non parlerei di una scena milanese, perché Ghali ha origini tunisine, Laïoung è della Sierra Leone e Sfera», sorride, «ha tratti molto meridionali. Direi più che altro che sono il vero sangue misto».



Un elemento che riporta alla scena multietnica del Bronx delle origini, e che spiega in parte la vitalità del nuovo rap italiano. Laïoung è nato a Bruxelles da madre sierraleonese e padre pugliese, in questi giorni è nei negozi, e sui palchi con l’album “Ave Cesare - veni, vidi, vici”, ed è in attesa di esordire con "Nuovo impero", il primo disco della RRR Mob, la crew italo-africana che ha fondato insieme a Isi Noice, Momoney e Hichy Bangz. Poi c’è Maruego, nato in Marocco nel 1992.

Mentre Tarek Iurcich, in arte Rancore, è romano, di padre croato e madre egiziana, non ha compiuto ancora trent’anni e ha esordito nel 2006 con il disco “Segui me”.

Rancore definisce il suo genere “Hermetic Hiphop” e ha chiuso il tour nazionale all’Atlantico di Roma con The Super Gusbumps Show, spettacolo con il quale ha unito rap, teatro, magia e illusionismo. Poi ci sono Mike Samaniego, romano di origini asiatiche, e Zanko El Arabe Blanco che ha genitori siriani. Senza dimenticare Bello Figo, ghanese trapiantato a Parma che continua a fare scandalo non più per i testi satirici che destra e leghisti prendono alla lettera ma per la continua necessità di annullare concerti per minacce.

Non si tratta più di casi isolati: l’elenco è molto ampio e rappresenta una generazione capace di sfruttare davvero video e social. Ghali, per esempio, è uscito da un mese con il primo disco, “Album”, ma è da tempo una star. Il suo singolo “Pizza Kebab” ha avuto 384 mila ascolti su Spotify in sole ventiquattr’ore, battendo il record precedente, sempre suo, di “Ninna Nanna”, che nel frattempo ha quasi raggiunto 50 milioni di visualizzazioni su YouTube.

Forse prima c’era più hip hop e adesso c’è più rap? «Sì», conferma Albertino. «Perché prima c’era molta più cultura vera, con writing, abbigliamento e danza. Ma erano i primi anni, quelli in cui avevamo ereditato dagli americani. Oggi, però, dobbiamo fare un po’ di ordine tra rap e pop spacciato per rap. È una questione di educazione musicale». E Fedez dove lo mettiamo? «Può piacere o meno, ma è molto intelligente, è un grande comunicatore e ha un talento evidente. Lo definirei un artista pop».

Ad attraversare i Novanta e arrivare fino ad oggi con grande rispetto e riconoscenza di pubblico e critica è Frankie hi-nrg mc. Forse è riduttivo definirlo rapper, perché ha scritto testi per Fiorella Mannoia, Simone Cristicchi e Raf. È anche fotografo e videomaker, e sta lavorando a uno spettacolo teatrale insieme a Marco Paolini, con il quale debutterà il prossimo 9 novembre al Teatro Massimo di Palermo con un’orchestra sinfonica di ottanta elementi. «Nell’underground, c’è il rap politico, quello d’amore, trash e umoristico», dice all’Espresso.

«Ma nella superficie mancano messaggi di connotazione sociale e politica, che veicolino una protesta o un disagio della comunità. Ci sono storie personali di esaltazione del sé, a volte romantiche e altre più dure, come una carezza e un pugno... Artisti differenti come Dargen D’Amico e Ghemon rientrano sotto lo stesso cappello. Oggi il rap è diventato “il” genere musicale e l’hip hop è disseminato in modo capillare: ci sono corsi di breakdance nelle palestre e non è raro trovare bambini che fanno beatbox. Manca, però, la conoscenza vera e propria, la volontà di trattarlo con la nobiltà propria di una cultura».

Sì, ma il trap? E il tuo artista preferito di questi anni? «Ghali mi sembra quello da ascoltare con maggiore curiosità. È diverso dal rap di cui parlavo prima, ma è interessante e divertente. Non è musica fatta e buttata là come la stragrande maggioranza di quella che si ascolta. Il gruppo italiano di questi anni che mi piace di più in assoluto si chiama “The Cyborgs” e fa blues, in inglese, ma ha un’attitudine assolutamente hip hop, perché ai concerti riesce a catturare il pubblico e a farlo muovere sincronizzato per tutto il tempo. Che poi è quello che dovrebbe fare l’hip hop, mentre dice cose utili o che fanno stare bene».