Il digitale non è una panacea, ma una cura. Che può fare molto bene all’ambiente e all’economia, ma non a costo zero o senza rischi

In uno dei suoi Sermoni, Sant’Agostino ci ricorda che “errare fu umano, ma è diabolico perseverare per animosità nell’errore”. Oggi, senza scomodare diavoli o santi, si direbbe che tutti possono sbagliare, ma che solo gli stupidi s’intestardiscono. A qualche lettore verrà in mente Theresa May, l’attuale primo ministro britannico, e la sua cocciutaggine per una Brexit tanto dannosa quanto anacronistica. In realtà mi sto riferendo a Donald Trump, e alla sua scellerata decisione, presa il primo giugno scorso, di escludere gli Stati Uniti d’America dall’accordo di Parigi sul clima.

Se n’è discusso molto allora. Ogni tanto se ne riparla, perché molti sperano ancora che Trump ci ripensi. Sarebbe bello. Me lo auguro. Ma ne sarei sorpreso. Secondo Vox, un sito d’informazione americano di orientamento liberale, durante la campagna elettorale Trump avrebbe inviato 115 tweet in cui denunciava il riscaldamento globale come una bufala, e l’accordo di Parigi, sostenuto da Obama, come un disastro economico per gli Stati Uniti.

Sono sciocchezze, contraddette da qualsiasi esperto. Ma Trump è impermeabile ai fatti e ai ragionamenti. E ciò gli permette una perseveranza nell’errore da fare invidia al demonio. È un errore irresponsabile, e ci sono mille ragioni per essere preoccupati. Tra queste una importante riguarda il digitale.

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Solo la coscienza ci divide dall'intelligenza artificiale
17/8/2017
Il giorno dopo l’annuncio di Trump, le maggiori aziende informatiche americane - tra cui Amazon, Apple, Facebook, Google, Ibm, Microsoft, e Twitter - hanno stroncato la decisione. Giustamente. Il blu del digitale è un grande alleato del verde ambientale. I due lavorano al meglio in tandem. E se il mondo godrà di uno sviluppo sostenibile per la terra e preferibile per l’umanità, sarà perché il verde e il blu avranno creato un circolo virtuoso tra natura e tecnologia.

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È vero che ogni operazione che coinvolge la gestione dei dati consuma energia, contribuendo al riscaldamento globale. Per esempio, nel 2011 Google stimava che ogni ricerca sul suo motore consumasse l’equivalente di una lampadina da 60W accesa per 17 secondi. E si pensi che lo scorso anno Google ha gestito circa duemila miliardi di ricerche. L’impatto negativo del digitale è simile a quello del trasporto aereo, aggirandosi sul 2% delle emissioni di gas effetto serra. Non sorprende che esistano sussidiarie come Apple Energy Llc e Google Energy Llc per gestire consumi e costi energetici delle corrispondenti aziende.

Tuttavia, è anche vero che le grandi aziende informatiche sono ormai ecologiche, utilizzando quasi esclusivamente energia rinnovabile. E soprattutto, secondo la Global e-Sustainability Initiative (SmarTer2020) l’impatto positivo del digitale sull’ambiente potrebbe essere sette volte più alto del suo impatto negativo, riducendo del 20% i gas a effetto serra globale entro il 2030.

L’enorme contributo ecologico del digitale è dovuto a diversi fattori. In passato si è parlato molto di “dematerializzazione”. Ci sarebbero stati meno libri stampati e più e-book; meno trasporto di atomi, a favore dei bit; meno viaggi e più comunicazione online e lavoro remoto; e così via. Le cose sono andate diversamente. Anche a causa del digitale, produciamo più carta e stampiamo più libri, si pensi ad Amazon; il commercio elettronico ha creato interi nuovi settori per lo spostamento di “atomi usati”, si pensi a eBay e ai corrispondenti servizi postali; e il digitale ha contribuito ad abbattere i costi dei voli aerei, incrementandoli. Gli esempi abbondano. A volte ci si dimentica che le monete digitali, come Bitcoin, assomigliano a piccole lampadine.

Secondo stime poco ottimistiche, entro il 2020 la rete di Bitcoin potrebbe consumare 14 gigawatt di energia elettrica, pari a circa l’energia prodotta dalla Danimarca. Certo, le cose sarebbero potute andare peggio. Ma, principalmente, il digitale aiuta l’analogico non perché lo rimpiazza, ma perché permette di fare molto di più con molto meno. Questo comporta l’ottimizzazione delle risorse, l’abbassamento degli sprechi, un notevole risparmio energetico, e la possibilità di far emergere attività produttive che altrimenti sarebbero insostenibili finanziariamente.

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Ci sono ragioni per essere ottimisti. Nel 2016 Google ha utilizzato un sistema d’intelligenza artificiale di DeepMind per ridurre il consumo energetico dei suoi centri dati, ottenendo un risparmio del 15%. E molta della cosiddetta share economy (economia della condivisione) sarebbe impossibile senza il digitale. In Italia, per esempio, nel 2016 la condivisione degli alloggi gestita attraverso piattaforme e applicazioni digitali ha portato ad ospitare 3,6 milioni di turisti, per un volume di affari di 3,6 miliardi di euro, pari allo 0,22% del Pil. Questo riferimento positivo all’Italia non è causale. La strategia verde-blu potrebbe svilupparsi molto favorevolmente nel nostro paese. Nel settore della green economy (economia ecologica) l’Italia è già all’avanguardia in Europa. E il valore ambientale e culturale del paese è eccezionale. Si dovrebbe investire molto su queste carte già vincenti. Si dovrebbe inquadrare la share e green economy come una grande opportunità di sviluppo e crescita, in coordinamento con una robusta economia dell’esperienza: benessere, cultura, enogastronomia, intrattenimento, salute, sport, tempo libero, e turismo. Si potrebbe iniziare con l’attuazione dell’accordo di Parigi sul clima, investendo a supporto diretto (infrastrutture) e indiretto (incentivi, disincentivi) dell’economia verde e blu; applicando l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile; e adottando le direttive europee sull’economia circolare basata sul riciclo e il riutilizzo completo dei materiali. E soprattutto bisognerebbe accelerare e irrobustire lo sviluppo delle tecnologie, dei servizi, delle competenze, e degli investimenti digitali, in vista di una sinergia strategica digitale-ambiente. È fattibile, e in parte sta già avvenendo. Secondo il Rapporto Assinform “Il Digitale in Italia 2017”, nel 2016 il mercato digitale italiano (informatica, telecomunicazioni e contenuti) ha raggiunto i 66.100 milioni di euro, con una crescita dell’1,8%. 

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Tutto rosa e fiori dunque con la nuova alleanza tra verde e blu? Non proprio. Il digitale non è una panacea. È una cura, e come tale presenta sia costi sia controindicazioni. Può fare molto bene all’ambiente e all’economia, ma non a costo zero o senza rischi. La sfida è che l’impatto positivo salvi il nostro pianeta prima che altri fattori, incluso l’impatto negativo del digitale, lo distruggano. Il che significa che il conto alla rovescia è già iniziato. Non abbiamo secoli a disposizione, solo decenni. Forse un paio di generazioni. C’è quindi una certa urgenza. La decisione di Trump fa male al verde e non aiuta il blu. È una disgrazia ambientalista ed economica. L’Italia ha una responsabilità di leadership per evitare che si trasformi in una catastrofe ecologica. E in questo ha una posizione invidiabile per realizzare un futuro verde e blu.