Oltre lo scandalo, un sisma che covava da molto. Resta da chiedersi se rimane qualcosa da salvare

Il sisma provocato dallo scandalo Weinstein sta ancora facendo tremare, al di qua dell’oceano, anche buona parte dell’Europa. Covava da tempo e le onde si sono propagate ben oltre il mondo del cinema. Anche l’Italia resta un epicentro di questo terremoto che avvolge sesso e potere nel grande contenitore delle “molestie”, finalmente scoperchiato.

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Molestie paradigmaticamente unidirezionali: dagli uomini maturi, che le avanzano e le portano a compimento, alle giovani donne che le ricevono e ne pagano le conseguenze sulla propria pelle – è davvero il caso di dire. “Carnefici” che sfruttano il loro potere e “vittime” che pagano la loro debolezza scontando il desiderio di avere un qualche protagonismo sociale. Così, la decisione presa negli Stati Uniti che queste vittime vengano elette, collettivamente, a “donne dell’anno” ha suscitato un ovvio consenso generale. Il fenomeno, con un effetto valanga, è diventato endemico coinvolgendo le esperienze di donne molestate negli ambienti lavorativi, ma anche quelle situazioni, magari nascoste e comprensibilmente taciute, che proliferano tra le cosiddette mura domestiche.

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Naturalmente non si può fare di tutte le molestie un fascio: alcune conducono direttamente alla violenza sessuale, altre risultano più sfumate o subdole. Queste ultime costituiscono una sorta di normalità, si confondono con l’approccio galante, permettono al maschio di tirarsi indietro e di dichiararsi innocente, vengono ridimensionate a qualcosa di semplicemente “percepito” dalla donna che le riceve (ma ne trattiene dentro di sé un segno magari indelebile).


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Qui, però, una volta tratteggiato rapidamente il quadro che ormai è sotto gli occhi di ognuno, vorrei interrogarmi sulla attuale cultura maschile e nello specifico chiedermi se in tale cultura – che appartiene anche a me in quanto uomo – resti, “molestia a parte” (boutade ma fino a un certo punto), qualcosa di positivo e difendibile, oppure se non rimane che starsene colpevolmente muti poiché ormai nulla di questa cultura da padroni appare più salvabile.


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Comincerei, per tentare di rispondere, da una rapida fenomenologia della condizione maschile di oggi, osservando subito che, se è vero che l’uomo continua a godere prestigio e padronanza sociale (“potere” per dirla in breve) sia a livello macro che a livello micro, e che quindi esiste tuttora un divario impressionante tra le potenzialità sociali dei due sessi, è tuttavia anche vero che molti maschi attraversano una decisa crisi di identità: non sanno più bene chi sono.

“Alla buonora!”, potrebbe essere il commento da parte femminile, certo del tutto condivisibile. Il filosofo Derrida aveva coniato il termine “fallogocentrismo” con cui indicava il carattere prevalente da secoli nella teoria e nella pratica dell’umanità (!), un’umanità fatta di uomini. La cultura fallica ed egocentrica è ancora in piedi, saldamente e in maniera dominante nel mondo intero, anche se viene incrinata da pratiche di consapevolezza critica cui lo stesso Derrida ha inteso dare il suo personale apporto. Dovremmo allora cercare di allargare e approfondire di più simili incrinature, piccole che siano, ecco il compito di tutti noi, uomini e donne, ciascuno per la propria parte.
Ma cosa accade a quel maschio (quei pochi che dovrebbero diventare tantissimi) che prende sul serio questo compito critico? Che si accorge che epiteti come “maschio” e “maschile” sono ormai parole marchianti e da cancellare? Che la stessa parola “uomo”, pur così indeterminata e universalistica, contiene qualcosa di oppressivo e al tempo stesso limitante? Accade che non potrà più dimorare lì e dovrà traslocare altrove. E dove? Dovrà prendere il femminile come esempio? Forse sì, ma credo anche che neppure questo basti a riempire la lacuna di identità che gli si spalanca, sempre che davvero riesca a essere conseguente con il suo sguardo critico.


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Lasciamo pure al loro posto le filosofie che alla fine contano poco e inoltre hanno i propri problemi da risolvere. Basta, infatti, guardarsi un po’ attorno, nelle nostre vite quotidiane, e constatare quante figure maschili, zoppicanti, incerte, quasi disadattate, comunque tristi, vediamo accanto a noi: alcune dichiarate nella loro instabilità, altre mascherate da chi tiene duro e sa quello che vuole, ma le loro sono maschere sottili e di cartapesta.
Se ti avvicini e li conosci un po’ meglio, scopri che i primi spesso hanno già appeso – come si dice – le scarpe al chiodo, cioè hanno smesso di cercarsi e vivacchiano all’ombra di compagne o figli piccoli, e i secondi reggono con fatica i loro ruoli mascherati e alla sera prima di dormire o nei momenti in cui si lasciano andare con qualcuno dichiarano fallimenti e addirittura intere vite da buttare.


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C’è una comune scena di strada che mi pare esemplare. Ecco un giovane padre che spinge la carrozzina portando il suo bimbo a passeggio. Non sembra annoiato, né ha l’aria di farlo perché deve, come ci si aspetterebbe. Anzi, sembra contento e orgoglioso del suo compito, come se avesse preso congedo da ogni tratto “maschile” e si fosse accomodato in un’identità intermedia tra uomo e donna, assumendo un aspetto gentile e un ruolo lontanissimo da qualunque cultura fallica ed egoica. Una specie di mutazione repentina nei confronti dell’odioso maschilismo da cui con ogni probabilità lui stesso proviene.

Questa banale scena di strada può sollevare parecchi interrogativi. Sarà vero che un simile esemplare di maschio è diventato – come pare – incapace di molestie e ormai solo incline al sorriso gentile e alla carezza innocente? È ragionevole dubitarne ed è più verosimile pensare che stia recitando una parte con la speranza che “gli riesca bene”: quanto a lui stesso, svestiti quei panni da padre/madre amorevole, potrebbe ridiventare chiunque, anche il peggiore dei molestatori.


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Ma perché essere tanto cinici? Forse è più giusto credergli e pensare che stia sforzandosi di cambiare pelle per liberarsi dai lacci di una greve identità maschile. Bene, diamogli credito, e subito ci chiederemo in chi e in che cosa vada trasformandosi non senza fatica. Esito nel dare una risposta convincente. Non so se si tratti di una specie di “mutazione antropologica”, come la chiamava Pasolini, è una strana trasformazione in qualcosa che non pare – per dir così – né carne né pesce, insomma un collocarsi tra la tipicità dell’uomo e la tipicità della donna, una specie di ibrido, appunto, incerto e comunque non ancora realizzato. Una posizione quanto meno scomoda in cui si sente al tempo stesso troppo stretto e troppo largo.

Non saprei dire, infine, se questa piega gentile possa assomigliare a un approdo o a un cambio di identità. Dall’altra parte non sfugge che un pezzo della padronanza, o addirittura qualche tratto ereditato dal maschilismo, possano ritrovarsi nell’attuale comportamento femminile, tuttavia non vissuti come un rischio o un problema di identità, ma questa è un’altra storia (oppure un capitolo della stessa?).