Fuori concorso, ma destinato a far discutere, al Lido approda "Citizen K". Il ritratto di Mikhail Khodorkovsky, nemico storico del presidente russo

Il magnate del petrolio Mikhail Khodorkovsky
Non cercate nomi russi tra i registi in concorso alla 76ma Mostra del Cinema di Venezia. Non ce ne sono. Non c’è il grande Alexander Sokurov, che nel 2011 vinse il Leone d’Oro con il “Faust”. Non c’è l’ormai venerabile Andrey Konchalovsky che pure al Lido è quasi un habitué. Non c’è Andrey Zvyagintsev da Novosibirsk, l’autore dei poderosi “Leviathan” e “Loveless”, che proprio qui al Lido spiccò il balzo nel 2003 con il suo debutto, “Il ritorno”, subito Leone d’oro. E anche allargando lo sguardo alle sezioni parallele non è che i nomi fiocchino, anche se i pochi presenti faranno senz’altro rumore e magari qualcuno proverà anche a metterli maliziosamente in rapporto.

Perché nel Fuori Concorso, la sezione più diplomatica della Mostra, quella in cui spesso si trovano i film più interessanti ma difficili da maneggiare, stanno affiancati due personaggi immensamente emblematici anche se lontani anni luce. Il primo è Stalin, o meglio il suo fantasma, protagonista assoluto anche se immoto di un monumentale film di montaggio dedicato ai suoi funerali dall’ucraino Sergei Loznitsa, che ha messo le mani su centinaia di ore di filmati mai visti, girati durante i funerali del dittatore e nei tre giorni convulsi che li precedettero, estraendone un film che in 135 minuti promette, se non di riscrivere la storia, di aggiornarla vigorosamente. Dettaglio non indifferente, il film non è prodotto dalla Russia ma da Paesi Bassi e Lituania, e chissà se dietro l’insolita accoppiata ci sono solo ragioni finanziarie.

Il secondo grande personaggio della storia russa, storia contemporanea questa volta, domina un film che batte invece bandiera angloamericana e nasconde il suo protagonista dietro la parafrasi di uno dei titoli più famosi del cinema mondiale, “Citizen K”. Dove “K” sta per Mikhail Khodorkovsky, il magnate del petrolio russo che nel 2003, dopo un logorante braccio di ferro con Putin culminato in un dibattito televisivo col presidente che si rivelò una trappola, fu spedito a schiarirsi le idee in un carcere di massima sicurezza ai confini con la Mongolia, a una settimana di treno dalla capitale. Per poi vedersi graziare 10 anni dopo dal nuovo zar, bontà sua (la bontà naturalmente non c’entra, fu un puro calcolo politico), e riparare a Londra dove vive ormai stabilmente dedicandosi senza risparmio all’associazione Open Russia, creata per sostenere il ritorno alla democrazia nel suo paese.

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Diretto da Alex Gibney, il grande documentarista americano che nel 2008 ha vinto un Oscar con “Taxi to the Dark Side”, imparabile j’accuse contro l’uso della tortura sotto Bush, “Citizen K” promette di alzare il velo su un mondo seguito troppo spesso superficialmente in Occidente. E lo farà con la forza d’urto e insieme la profondità a cui ci ha abituato il suo prolifico autore. Che indaghi su Scientology o ripercorra la storia di Wikileaks, che scavi nello scandalo dei preti pedofili (“Mea Maxima Culpa: silenzio nella casa di Dio”) o spieghi anche ai comuni mortali i segreti di uno dei più complessi inghippi del nuovo millennio (“Enron - L’economia della truffa”), Gibney è noto infatti per il suo stile puntiglioso e squadrato.

Niente giullarate alla Michael Moore per intenderci, o voli rarefatti al confine tra realtà e messa in scena. L’autore di “Citizen K” (che avrebbe anche potuto intitolarsi “Citizen P”, tanto Putin è ossessivamente presente in ogni piega della vicenda), applica al cinema i mezzi più potenti del giornalismo investigativo. Amplificandone la portata grazie alla forza del montaggio, allo scavo ossessivo nei materiali d’archivio e a una capacità non comune di far parlare i testimoni. Che non significa banalmente far loro dire cose che forse non confesserebbero neanche a se stessi, ma sottoporli allo sguardo spietato della macchina da presa, nelle sue mani una specie di macchina della verità capace di estrarre da sguardi, sorrisi, esitazioni, tutta quella massa di informazioni scomode che ognuno di noi riesce a gestire con maggiore o minor successo.

Ce n’è abbastanza per scommettere che “Citizen K” sarà un caso insomma, anche se collocato prudentemente fuori gara. Perché per ricostruire la parabola di questo figlio della classe media diventato in pochi anni uno degli uomini più ricchi del mondo, poi trasformato come il conte di Montecristo da una lunga e durissima prigionia, Gibney non affronta solo il diretto interessato, con cui ha registrato 20 ore di intervista a Londra, ma una lunga serie di testimoni chiave.

Da Leonid Nevzlin, socio della prim’ora di Khodorkovsky, all’olandese Derk Sauer, fondatore e direttore del Moscow Times (e dell’edizione russa di Cosmopolitan, che ebbe subito un successo fragoroso), al giornalista inglese Martin Sixsmith, ex corrispondente da Mosca della Bbc e autore tra l’altro di “The Litvinenko File”, uno dei primi seri studi sulla guerra tra il Cremlino e gli ormai ex-oligarchi; mentre non ebbe il tempo e forse la voglia di scrivere la biografia di Boris Berezovsky, che pure glielo chiese personalmente, uno dei sette miliardari che con Khodorkovsky si spartiva il 50 per cento dell’economia postsovietica nei selvaggi anni ’90, morto a Londra nel 2013 in circostanze mai chiarite, come tanti altri compatrioti eminenti.

«Sono andato in Russia», ha detto Gibney, «e ho parlato con gli amici e i nemici di Khodorkovsky cercando di trovare un senso a quel luogo. Volevo vedere il Paese dove – prendendo in prestito una frase di Peter Pomerantsev – “niente è vero, tutto è possibile”. Attraverso la storia di Khodorkovsky – e la sua lotta con Putin – ho cercato di capire come funziona il potere in Russia».

L’attenzione più o meno esplicita alla scena politica, o meglio ai suoi risvolti più oscuri, ricorre del resto in questa Mostra, anche se ogni film percorre strade diverse. Come se la ricerca ossessiva di riferimenti certi, in un periodo di totale confusione, generasse la massima frammentazione di approcci e di stili. Così c’è chi si aggrappa alla cronaca, anche se segreta, come il Costa-Gavras di “Adults in the Room”, ispirato alle memorie di Varoufakis (fuori concorso); e chi invece rilegge il genocidio degli indios in Guatemala in chiave quasi horror, tra vittime che tornano come zombie e fantasmi che incarnano figure della mitologia locale (“La llorona” di Jayro Bustamante, Giornate degli Autori). Chi racconta la lotta solitaria di una saudita che corre da sindaco (“The Perfect Candidate”di Haifaa Al-Mansour, Concorso) e chi ripercorre in chiave di spy story la guerra tra castristi e anticastristi nella Miami anni ’90 (“The Wasp Network” di Olivier Assayas, Concorso). Forse perché l’unica certezza possibile ormai è lo smarrimento. E al cinema tocca trovare la formula magica per trasformare l’ansia in bellezza.