Si chiama LaTurbo Avedon. È una creatura virtuale protagonista di show nei festival più prestigiosi e di mostre realizzate all'interno dei videogame. Perché identità sintetiche e fisiche, online e offline, sono ormai inscindibili

Le opere ci sono, la faccia dell’artista no. O meglio: sì, ma è un avatar. Niente anonimato, non serve. Se si cerca il nome di LaTurbo Avedon, ci si imbatte nell’immagine virtuale, in 3D, di una ragazza dai tratti vagamente caucasici, coi capelli a volte corti e a volte raccolti in una coda da cavallo, comunque sempre biondo platino. Per sua stessa ammissione: un po’ la popstar Miley Cyrus, un po’ Quistis Trepe, la protagonista della serie di videogiochi “Final Fantasy”. E tanto basta, non solo per definire le coordinate estetiche del progetto.

Chi si nasconde dietro questa “incarnazione”? Non è importante, perché l’arte è digitale e l’artista “nativa di Internet”. Tradotto: non un’autrice che ha un avatar, ma una che è un avatar. E che – rigorosamente via email – precisa all’Espresso: «Non ho alcun obbligo di rappresentare qualcun altro: esisto come individuo virtuale a pieno titolo, senza vincoli o “referenti” fisici». Non produce tele o sculture di marmo ma file che esistono esclusivamente sulla rete, studiando «i modi in cui la rappresentazione di sé viene ampliata attraverso le esperienze che viviamo sullo schermo».
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Come, del resto, induce a fare la sua stessa identità in continua “costruzione”, punto di convergenza di un processo partito nel 2008 con la gestione di un locale notturno in Second life – un simulatore di vita online in cui lei è diventata famosa tramite i suoi dj-set – e successivamente arrivato in tanti angoli della rete. Dal 2012, infatti, ha iniziato anche a curare l’esposizione Panther modern, una sorta di hub da lei fondato per opere di altri rigorosamente a portata di clic, mentre poi si è presa i social media attraverso un profilo Instagram che ci aggiorna sulla sua vita sul web, fra immagini delle mostre e selfie delle uscite, ovviamente in ambienti virtuali, con gli amici.

E oggi, infine, può dire di aver esposto in gallerie tradizionali, tra cui la Transmediale di Berlino e la Transfer di New York, come pure su siti-museo creati ad hoc, chat-room e qualsiasi altro spazio digitale in grado di accogliere le esperienze audiovisive site-specific – cioè fruibili solo nel luogo in cui sono inserite, e per il quale sono state appositamente concepite – che progetta.

Per esempio l’ultima, “Your progress will be saved”, è un’imponente – e simbolica – struttura di specchi e luci costruita direttamente all’interno del videogame Fortnite, grazie alla modalità creativa. E se non è la prima volta che il nome di LaTurbo viene associato a un gioco (in passato, fra i tanti, era apparsa in Overwatch e Minecraft; è un amore di lunga data, conferma), in questo caso c’è di mezzo la presenza inedita di Factory virtual, l’anteprima online del Manchester International Festival che aprirà nel 2021, per il quale, la scorsa estate, è stata prodotta l’installazione. Che contiene stanze in cui girare con il proprio personaggio per «collezionare ricordi», e che riflette sul modo in cui tutti noi, sul web, siamo «soli, ma insieme».
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Perché – dice – internet può anche averci isolati, «ma ci ha comunque permesso di essere più vicini con la mente, come per esempio è successo durante il lockdown. Certo: per molti magari risulta difficile, a oggi, procacciarsi esperienze virtuali come farebbero nel mondo fisico; ma sono convinta che dobbiamo ancora imparare tante cose degli ambienti che abbiamo creato nel metaverso (il mondo virtuale in cui si è rappresentati tramite un avatar, NdR.)». Esplorazione, quindi; e sguardo proteso al futuro. Del resto, secondo lei, è proprio il concetto di dualismo digitale a essere superato: «Il mio lavoro cerca di smentire la convinzione, ancora molto diffusa, di una distinzione fra realtà virtuale e fisica, per incoraggiare gli altri a riflettere sulla loro identità in rete».

E infatti anche “Eternity be kind” – la sua performance-installazione presentata in Italia, in prima nazionale, lo scorso ottobre al Romaeuropa festival – parte dalla certezza che le dimensioni online e offline, nelle nostre vite, siano ormai inscindibili. Trasmessa in streaming, l’opera è stata realizzata insieme a Myriam Bleau, una compositrice e artista digitale – lei, sì, in carne e ossa – residente a Montreal e specializzata in musica dance, sistemi audiovisivi e studio dei rapporti fra suoni, luoghi fisici ed esseri umani. Si tratta di una sorta di concerto, per quanto in realtà rappresenti molto di più.

Sullo schermo le due artiste mettono in scena, davanti a un palco virtuale e una consolle da dj, quasi quaranta minuti di show sui brani originali della producer canadese, in rotta verso un’elettronica scura, ispirata a un hyper-pop distopico e ultra-sintetico. E con in mezzo echi barocchi che ritornano nei campionamenti di liuto, luci stroboscopiche che si mischiano a grafiche tridimensionali, voci pitchate prese in prestito dalla trap o dal k-pop. Oltre, ovviamente, a LaTurbo, che balla e canta come una diva, o una novella popstar. Ma, appunto, non è un semplice live: col passare del tempo i suoni si fanno liquidi, i cori profondi e vagamente soul, la ritmica della cassa sincopata, spezzettata; finché non ci si risveglia direttamente in un club, vuoto e visto in prima persona, e poi ancora sospesi nel vuoto, infine circondati da stelle, ologrammi, altri specchi.

I confini fra concerto tradizionale ed esperienza virtuale saltano. E, nell’anno in cui – a causa della pandemia – molti musicisti provano a organizzare dei live appositamente per lo streaming, mentre il rapper Travis Scott addirittura si esibisce in un breve show proprio durante una sessione Fortnite, “Eternity be kind” riallaccia i fili fra online e offline.

Stimolando, però, anche le tipiche riflessioni della casa: «La prospettiva di fondo è critica nei confronti dei mondi basati solo sulla simulazione, e in particolare sul modo in cui questi potrebbero prendere il posto della dimensione fisica, magari con il tempo passato in quarantena», precisa l’artista. Perché alla fine «guardare il monitor è come guardare uno specchio»: le due dimensioni non si escludono a vicenda; anzi, collimano, sono entrambe reali. E chi meglio di un’artista-avatar può testimoniarlo?

Anche per questo, per entrare in contatto con LaTurbo si può giocare con lei a un videogioco in modalità multiplayer, scriverle sui social oppure assistere direttamente a una installazione d’arte contemporanea, magari inserita in una galleria tradizionale. «Lavorando solo attraverso interazioni immateriali, ho imparato a rendere la mia intera pratica creativa estensione della mia identità virtuale», conclude rimarcando come, dopo più di dieci anni di ricerca, la sua stessa presenza online sia ormai considerata la performance, prima ancora delle singole opere. Sottinteso: conversazione su Facebook o cattedrale nel deserto su Fortnite, poco importa. E infatti, per chi frequenta determinati ambienti della rete, è ormai diventata un volto familiare, nell’ambito di una strategia che volutamente smorza ogni aspetto di straordinarietà della proposta. Perché dietro la sua l’eccezionalità, LaTurbo nasconde una nuova promessa di normalità.