Una vita in jazz
Paolo Conte: «Questi anni Venti non sono affatto ruggenti: il secolo attuale non mi suggerisce niente»
Un suggestivo concerto alla Venaria Reale. Un doppio Lp in uscita. E l’incontro con l’artista spagnolo El Greco. Il cantautore mette in musica il vizio della pittura. Il suo. E si racconta a L’Espresso
Per gioco la prendo larga, e parto dalla minestrina, la salutare pietanza al centro di uno smagliante duetto con Mina che viene riproposto nel nuovo disco: «Dint’a nuttata mia / E intanto che la minestrina cuoce / Sona ’a radio doce doce / ’Na canzuna ca me piace».
Gli dico: lo sa che Giacomo Leopardi a undici anni scrisse una sua poesia sulla minestra? Una specie di ode al contrario, in cui, rivolgendosi all’odiata minestrina, le diceva: «Dir di abominarti mi apporta un gran diletto». «Io invece sono un appassionato delle minestrine in brodo, anzi direi delle minestre in generale», dice Paolo Conte. E intanto che la minestrina cuoce? «E intanto? Sono cose da adulti».
Nel doppio LP in uscita il 12 novembre, “Live at Venaria Reale”, sono raccolti i pezzi che ha eseguito in uno straordinario concerto alla Reggia di Venaria nel settembre scorso: sì, certo, c’è l’immancabile “Via con me”, ma c’è, per dire, anche una canzone come “Hemingway”, in cui all’americano trapiantato a Parigi nei folli anni Venti Conte chiede: «Et alors, monsieur Hemingway, ça va?». Domanda che, alla fine, farò anche a lui. Ma i veri miti di quella stagione, l’età del jazz, non a caso, sono per lui Louis Armstrong e Johnny Dodds, talenti esuberanti d’oltreoceano capaci di caricarsi sulle spalle il peso del passaggio dal «folklore consapevole alla musica propriamente detta» («Mi piace – aveva spiegato a “Repubblica” in un’intervista del 2019 – «quando si sente questo passaggio da un mistero drammatico a qualche cosa di più costruito»).
Il disco è un’antologia speciale arricchita da un inedito: una larga escursione nel percorso di Conte fra brani più intimisti, o più ritmati, più esotici – “Come Di”, “Alle prese con una verde milonga”, “Aguaplano”, “Max”, “Gioco d’azzardo”, “Dancing”, “Madeleine”, “Genova per noi”, “Reveries”, “Gli impermeabili”, “Le chic et le charm”… Il timbro swing è comunque un marchio di fabbrica. E a quel ritmo anni Venti Conte continua a respirare felice vecchi paradisi, come scriveva dieci anni fa su queste pagine Malcom Pagani. A cui il maestro già allora rispondeva che «l’attualità non ha odore»; e perciò preferiva intrattenersi su Duke Ellington, Brel, Aznavour e Trenet, anziché commentare cronache politiche. Dieci anni dopo, stesso distacco. Incupito? No, ma perplesso. Nostalgico? Nemmeno. E spiegherà perché. Con poche parole, perché non ne aggiunge una in più dello stretto necessario.
«È stata un’esibizione molto emozionante, ma, allo stesso tempo, particolare: nella Sala Diana della Reggia di Venaria non aveva mai suonato nessuno, è stato un onore poter essere il primo artista ad esibirsi in questo meraviglioso luogo. Inoltre, si è trattato di un concerto senza pubblico, non è facile cantare e suonare senza trovarti di fronte l’affetto delle persone», racconta.
Mentre parla viene da immaginarselo, questo grande cantautore, o autore-cantante, come preferisce lui, che entra in una scena aggiunta di "Midnight in Paris”. Il film in cui Woody Allen consentiva a uno scrittore in crisi di ispirazione mettere piede, per magia, nella leggendaria stagione parigina in cui Hemingway e Picasso si trovano seduti allo stesso tavolo. Là, in una festa stile Grande Gatsby, un’orchestra suona il jazz. E se un’orchestra suona il jazz per forza di cose si sente, dice Conte, «il profumo della rivoluzione», della vera avanguardia. «Sotto le stelle del jazz / ma quanta notte è passata»: quella musica vissuta non come sogno, ma come «cosa reale», linfa africana nelle vene dell’Europa e dell’America, passava dai dischi che i genitori ascoltavano «in barba al fascismo». Alternativi anni Venti, per l’appunto: l’epoca ideale che precede la sua nascita e che ha vagheggiato, interrogato, raccontato, soprattutto in un disco uscito al passaggio di secolo come “Razmataz”,e non smette di seminare scintille.
Nel disco c’è un inedito, intitolato “El Greco”: “Sono un pittore, un creatore, io sono antico…”. Lei ha raccontato che il vizio della pittura precede nella sua vita quello per la musica. Che cosa la affascina di quelle mani di artista che arraffano “un cielo esasperato” per farlo stridere di luce? «I versi della canzone che ho scritto mi sembravano molto adatti ad essere dedicati a quel pittore speciale che era El Greco», risponde il cantautore: «Lei dice bene: quelle mani di artista. Le aggiungerei che arraffa il suo stesso mestiere in modo esasperato come quel cielo. Eseguiva figure di santi talmente oblunghe che quasi non stavano nel quadro. Non aveva paura di queste sue esagerazioni e per un rinascimentale è già una bella novità».
Dipinge ancora, Paolo Conte: «Ho ripreso a disegnare e a dipingere. Questo è nella mia vita un "vizio" più antico di quello per la musica. Da bambino disegnavo trattori fin nei minimi particolari meccanici. Poi c'è stato il periodo dei cavalli, poi quello dei musicisti di jazz. Non ho quasi mai affrontato i paesaggi (troppo lontani dalla portata dell'uomo) salvo quelli urbani. Ho scoperto recentemente le sorprese che ti dà il pastello su cartoncino nero».
Gli faccio notare che nel disco del live alla Venaria Reale sono contenuti i brani “più amati”: dal pubblico di sicuro. Ma da lui? Non è detto infatti che le due cose coincidano.
«Coincidono, ma solo in parte. Ho scritto tantissime canzoni e a tutte sono rimasto affezionato. Anzi ho una particolare simpatia per quei brani che non metto mai in repertorio». In un concerto come quello del disco ripercorre tappe salienti di quella che per comodità chiamiamo carriera. Ma quanto c’è di “casuale”, accidentale nelle occasioni felici di un artista ispirato e quanto si deve all’ostinazione di una ricerca? «L'ostinazione e la fantasia mi sa che camminano quasi sempre affiancate», risponde: «Viste come strumenti di lavoro, potremmo anche pensare che una sia la matita e l'altra la gomma».
Mi domando, e gli chiedo, che effetto gli faccia quando sente parlare oggi di Paolo Conte, dell’opera di Paolo Conte, anche con dotte e articolate analisi. «Certamente l'applauso "intellettuale" mi fa piacere, ma mi creda, l'applauso che gradisco di più è quello "circense" che accoglie l'equilibrista in un abbraccio liberatorio».
Ogni tanto le voci che accoglie nelle sue canzoni parlano di tempo andato, perduto. Ma Conte ha sempre detto di non essere nostalgico. Come si difende dalla tentazione? «La nostalgia è un sentimento verso qualcosa della tua vita che rimpiangi e ti danni per farla rivivere. Ma, per la verità, le volte in cui posso essere sembrato nostalgico è quando rievoco e cerco di far rivivere qualcosa precedente della mia nascita. Come quando mi tuffo negli anni Venti del ventesimo secolo». Gli anni Venti per un jazzista contano parecchio, sono un magnete imprescindibile: ma anche gli attuali, quelli appena cominciati, potranno essere anni ruggenti? Conte, sul punto, risponde secco: «Non sono affatto ruggenti “questi” anni Venti. Emettono suoni meccanici, ottusi, squalificati. Il secolo attuale non mi suggerisce niente, staremo a vedere».
Et alors, monsieur Conte, ça va? «Pour l'instant ça va, monsieur».