Abitazioni come isole connesse. Spazi pubblici con filtri per ridurre i rischi sanitari. Servizi a non più di 15 minuti di distanza. Sono le metropoli dopo il virus. Ma non per tutti

Che tracce lascerà la pandemia nelle forme fisiche e immateriali delle nostre metropoli? Vivremo una forma di rimozione collettiva che ci porterà a tornare a vivere come prima o, invece, le tossine del trauma emergeranno silenziosamente generando conseguenze che, al momento, non possiamo prevedere? Dopo la grande epidemia di Spagnola, Le Corbusier, il più importante architetto del secolo passato, teorizzò una città moderna piena di aria, sole e natura che incrociava la maglia razionale dei nuovi edifici. La tragedia dell’11 settembre ha fatto irrompere la questione della sicurezza nei progetti degli spazi pubblici. La crisi finanziaria del 2008 era nata per una bolla immobiliare e ha bloccato decine di grandi e inutili progetti. Ogni grande crisi ha delle conseguenze sui nostri modi di vivere i paesaggi urbani e sono certo che il trauma collettivo vissuto con la pandemia presenterà presto il conto.

 

In queste ultime settimane si moltiplicano i segnali che vedono le amministrazioni pubbliche più evolute tra Europa e Nord America cominciare a interrogarsi su come immaginare le forme degli spazi comunitari dei prossimi decenni, per superare le paure attuali e insieme prevenire altre, possibili, crisi sanitarie. Questo vale anche per le grandi multinazionali che oscillano con incertezza tra un forzato ritorno al lavoro in presenza e forme sempre più miste tra remoto e ufficio tradizionale.

Che paesaggi domestici e pubblici saremo dopo quasi due anni passati nelle nostre abitazioni o in margini sempre più limitati di porzioni urbane e geografiche? Come riusciremo a elaborare individualmente e collettivamente un trauma così radicale e profondo?

 

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In questo lungo periodo pandemico si sono moltiplicate le immagini, le parole e i suoni provenienti dall’universo domestico in cui più di metà dell’umanità è stata reclusa. Non era mai successa una forma di miopia collettiva così potente e diffusa, capace d’imprigionarci all’universo delle nostre abitazioni e di costringerci a guardare alla casa come all’unico spazio urbano percorribile. Contemporaneamente, non era mai avvenuta in epoca moderna una così diffusa messa in discussione della città e dei suoi caratteri fondanti basati sul vivere comunitario, sulla condivisione e i principi cardine di sussistenza reciproca. Si tratta di un fenomeno planetario che non era mai avvenuto nella nostra Storia: miliardi di persone, distribuite lungo i cinque continenti, chiuse in casa e totalmente connesse.

È interessante notare come la maggior parte delle testimonianze e figure si siano concentrate soprattutto sulle soglie: finestre, porte, balconi, davanzali, terrazzi.

Si tratta della naturale espressione di un desiderio di quello che non possiamo avere, quella città che osserviamo per piccoli frammenti dalle nostre imboccature domestiche e che fa emergere tutti i ricordi che nutrono la nostra identità. Stando in casa ci accorgiamo di quanto siamo cittadini e dell’importanza che la città, grande o piccola che sia, ha nella nostra vita, offrendoci spazi di libertà, scoperta e occasioni che nessuna abitazione potrebbe mai offrirci.

Nella relazione tra corpi (nostri e degli altri) e ambiente domestico, si sta registrando una silenziosa metamorfosi che cambierà molti dei luoghi che abitiamo, oltre a provocare conseguenze nel nostro modo di vivere gli spazi di comunità e i luoghi che costruiscono la città. C’è un’impennata improvvisa delle ristrutturazioni domestiche con richieste di abbattere pareti, rendere fluidi gli spazi interni, immaginare luoghi capaci di rispondere a domande e usi che cambino nella giornata a seconda delle necessità, domandano più luce e colori accoglienti.

La separazione, già molto fragile, tra casa e lavoro è stata annullata completamente generando conseguenze importanti per la nostra idea di domesticità. Ma non solo, in questo periodo le funzioni tipiche della città sono franate nel domestico: lavoro, educazione, cura medica, sport, intrattenimento. Tutto condensato nel minuscolo spazio privato delle nostre abitazioni.

Si tratta di un cambiamento profondo, silenzioso ma inesorabile.

È necessario interrogare con attenzione il fenomeno domestico, perché la casa, oggi, raccoglie in sé un valore politico, sociale e simbolico superiore a molti degli spazi pubblici che viviamo distrattamente. Nelle nostre case si sedimentano le emozioni profonde, le paure, le rabbie e quei desideri che poi diventano domanda sociale e pressione per un cambiamento dei luoghi che abitiamo. Capire la propria casa, fisica e interiore, vuol dire comprendere meglio sé stessi e, insieme, imparare a prendersi cura dei luoghi che abitiamo, sia nel privato che nel pubblico.

Sulla casa si sono vissute le maggiori disuguaglianze sociali, economiche e una conflittualità crescente forzata da una compressione inumana a cui sono sottoposte milioni di famiglie e di giovani.

Ma in questo momento credo che gli interrogativi più urgenti si stiamo spostando sul paesaggio urbano che tradizionalmente abitavamo, non solo per la somma di abitudini che, cambiando, modificheranno le nostre città ma anche per le ricadute economiche, sociali e simboliche che potrebbero nel tempo produrre cambiamenti significativi. Molti hanno paventato la fuga dalle metropoli per i paesi abbandonati e le campagne, ma si tratta di una scelta che solo una ristretta élite si potrà permettere e non inciderà in maniera sostanziale sulle nostre città.

Invece potremmo registrare trasformazioni radicali all’interno dei paesaggi metropolitani, figlie di un tentativo di ridurre i gradi di complessità e rischio che la città abitualmente porta con sé.

In questo periodo si sta affermando sempre di più l’idea della “15 minutes city”, ovvero la possibilità di trovare tutto quello che ci può servire in un diametro urbano circoscritto.

Grandi catene commerciali stanno tornando ai mini-market di quartiere piuttosto che immaginare altre, dispendiose, distese di superfici commerciali costruite nelle nostre periferie. Lo stesso varrà per i servizi base sanitari che verranno distaccati dai grandi poli ospedalieri per consentire una riduzione dei rischi pandemici su scala territoriale. Diverse multinazionali stanno cercando spazi più ridotti per i loro quartieri generali immaginando una diversa ripartizione del lavoro lungo la settimana. Si tratta di un restringimento fisico e simbolico dell’idea stessa di città che viene scomposta in un arcipelago multiforme e fluido di isole connesse dalle infrastrutture principali di collegamento e di funzioni pubbliche forti (scuole, ospedali, musei, centri sportivi) e che vede le nostre case diventare centri fragili di un sistema sempre più basato sull’individuo e le sue necessità.

Si tratta di un fenomeno che si presta a diverse, contrastanti, conseguenze.

Da una parte potrebbe portare al rafforzamento di un’idea di comunità di vicinato che sembrava essersi dissolta nelle grandi città, in cui la strada e i servizi di prossimità stimolino una differente qualità dell’abitare, oltre che forme di solidarietà che contrastino le paure che ci accompagnano.

La rete e il sistema capillare di connessioni digitali e servizi collegati lo consentirebbe.

Ma un altro, possibile, scenario vedrebbe in questo sistema un rafforzamento delle distanze sociali con il rafforzamento di una élite privilegiata che potrà permettersi una condizione “smart” e una massa sempre più diffusa e impoverita che si attiverà al suo servizio.

Un sistema controllato e protetto di residenze per comunità chiuse ed economicamente avvantaggiate si doterebbe progressivamente di filtri che siano capaci di mediare tra le persone e la città esterna: aree per le consegne, zone di controllo sanitario, spazi per il benessere e la cura del corpo.

Nelle abitazioni privilegiate la domanda di flessibilità aumenterà per garantire quei cambiamenti d’uso che una pandemia impone, con aree per isolamento sanitario dei singoli membri della famiglia, spazi dedicati stabilmente al lavoro da remoto e interfacce digitali per gli ordini ai commercianti in zona.

Questa situazione ha chiaramente dimostrato che le aree maggiormente povere e densificate hanno avuto più vittime colpendo famiglie numerose costrette a vivere in ambienti ridotti e gli anziani soli. La frattura si è registrata nel gap strumentale di computer e connessioni che hanno aumentato le distanze sociali e l’accesso all’istruzione. La crisi economica ha colpito soprattutto donne e giovani al primo impiego, oltre che evidenziare la fragilità di un sistema abitativo e insediativo invecchiato e abitato da un numero significativo della popolazione delle metropoli.

La pandemia ha messo a nudo l’agonia di un sistema di welfare pubblico incapace di reggere la complessità della trasformazione sociale e del peso economico nella sua gestione riportando al centro il progetto di architettura come uno degli strumenti con cui ripensare le nostre città attraverso strumenti e metodologie da immaginare, alternative alle pratiche progettuali del secolo passato.

Nelle nostre case stanno entrando una serie di elementi tipicamente urbani: il lavoro, la sanità, l’educazione e il commercio, portando a un naturale restringimento delle zone di privacy.

Quale sarà il risultato di queste pressioni? Una casa che sarà sottoposta a un esercizio di flessibilità estrema, in cui le aree semi-pubbliche quelle iper-private saranno rigidamente separate o che vedranno una forma di fluidità estrema capace di ridurre le aree intime della nostra vita ad appendici sempre più ridotte?

Sarà possibile immaginare le nostre aree residenziali e gli spazi pubblici per la salute, lo sport, la cultura, il commercio e l’educazione come luoghi per soglie progressive, che filtrino i rischi potenziali proteggendo il cuore in cui convivere senza paura? Una serie di buffer-zone che aiuteranno a contenere il rischio ma che, insieme, rafforzeranno il controllo sociale e l’impossibilità di muoversi liberamente tra gli spazi della città. 

Oltre a questo appare chiaro come la questione ambientale, di sostenibilità diffusa dei luoghi che saremo chiamati a costruire e a modificare, sarà sempre più centrale. Il progetto deve recuperare una visione circolare dell’ambiente che abitiamo, che riporti al centro la vita tutta degli esseri che popolano il nostro pianeta attraverso un esercizio di visionarietà libera e radicale. Abbiamo davanti a noi un’ultima, vera, occasione per cambiare rotta attraverso scelte che potrebbero avere un impatto collettivo fondamentale per il futuro delle prossime generazioni.