Intervista

Anna Bonaiuto: «Quando dissi a mio padre che volevo fare l’attrice, mi cacciò di casa»

di Francesca De Sanctis   29 agosto 2022

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«Avere una famiglia che non ti capisce ti dà anche la forza per andare avanti per la tua strada fino alla realizzazione del sogno». Da Martone a Zingaretti, dal cinema alla tv. Passando e ripassando dal teatro. Una grande attrice si racconta

«Il mio grande amore? Il teatro... Ancora mi emoziono quando devo andare in scena, come se fosse la prima volta». Non ha dubbi Anna Bonaiuto, eppure grandi soddisfazioni ne ha avute anche dal cinema, da “L’Amore molesto” di Mario Martone a “Il divo” di Paolo Sorrentino, tanto per citare un paio di film molto premiati. «E pensare che il cinema è arrivato per caso, non è mai stata una mia ambizione», racconta l’attrice. «L’ho sempre messo in secondo piano rispetto al teatro, per questo l’ho affrontato in maniera molto tranquilla. Quando dovevo recitare per Nanni Moretti tutti mi dicevano “farai 10 ciak” e invece, dopo un paio di ciak la scena era buona. Quando lavoro per il cinema non mi faccio prendere dalle ansie, sono sempre molto rilassata, evidentemente questo atteggiamento aiuta!».

Il teatro le fa battere ancora il cuore, a quanto pare. Ma come è nato questo grande amore?
«È una passione che nutro sin da quando ero piccola, non ho mai voluto far altro nella vita. Le mie prime rappresentazioni sono iniziate quando avevo tre anni. Aprivo la tenda del garage e chiedevo ai bambini di stare dall’altra parte».

È vero che i suoi genitori non presero molto bene la sua decisione di diventare attrice?
«Mio padre mi cacciò di casa».

Ma perché?
«Mi disse, con il suo accento napoletano: “Perché è una vita che si fa prevalentemente di notte”. Ma avere una famiglia che non ti capisce ti dà anche la forza per andare avanti per la tua strada fino alla realizzazione del sogno. E così, con una borsa di studio, sono riuscita ad iscrivermi e a frequentare l’Accademia d’arte drammatica Silvio D’amico a Roma».

Erano gli anni Settanta. Com’era Roma?
«Io provenivo dal Friuli e Roma era così diversa dal mio ambiente, così piena di artisti. Ero senza un soldo, ma gli incontri che avevo l’opportunità di fare mi ripagavano di ogni sacrificio. Potevo andare a teatro e vedere spettacoli di Carmelo Bene, Carlo Cecchi, Romolo Valli».

Ha mai incontrato Pier Paolo Pasolini?
«L’ho visto una sola volta mentre era seduto al ristorante, a Campo dei Fiori. Ma ero a Roma da poco, non ho avuto il coraggio di avvicinarmi, per me era un mito».

A lui è dedicato lo spettacolo che quest’estate ha portato in scena in due luoghi meravigliosi: a Montauro, nella Grangia di S. Anna (Armonie d’arte Festival), e nel Parco Archeologico di Segesta (Segesta Teatro Festival, fino al 4 settembre). Il 29 agosto “PPP 3%” sarà al Teatro romano di Benevento: è un omaggio al grande poeta di cui sentiamo tutti la mancanza?
«Io mi chiedo spesso cosa penserebbe oggi Pasolini. Non mi stancherò mai di rendergli omaggio. Avevo già affrontato i suoi testi anni fa nello spettacolo diretto da Francesco Saponaro, “Porno-Teo-Kolossal”, il film purtroppo mai realizzato da Pasolini a causa della prematura scomparsa. E da lì prende spunto lo spettacolo, “PPP 3%” di Teatri Uniti/Casa del contemporaneo, che in maniera più semplice e snella porta all’aperto, in bellissimi spazi archeologici, le parole del poeta friulano. Pasolini voleva realizzare questo film negli anni immediatamente successivi a “Salò e le 120 giornate di Sodoma”. Aveva una visione abbastanza catastrofica del mondo ma questa sua visione era alleggerita dalla presenza di Eduardo De Filippo, che avrebbe voluto in “Porno-Teo-Kolossal”. Quello che stiamo portando in scena è un trittico di installazioni performative che parte da “Le ceneri di Pasolini” con la voce di Peppino Mazzotta, prosegue con “1975”, quasi un talk show multimediale fra Pasolini e Andy Wharol, e si conclude con “Porno-Teo-Kolossal».

La regia di “PPP 3%” è firmata da Saponaro, ancora una volta un regista partenopeo. Napoli è sempre stata molto presente nella sua vita…
«Io adoro Napoli e la sento molto vicina, anche se non ci ho mai vissuto. Però mio padre era napoletano. Quando partivo con lui dal Friuli per andare a Napoli ricordo questa grande città in cui c’erano fuochi d’artificio, donne che preparavano pranzi, zie sempre pronte a festeggiare. Quel mondo ti rimane dentro».

E poi ha avuto un lungo periodo artistico napoletano, a cominciare dall’incontro con Mario Martone. “L’amore molesto”, tratto dal romanzo di Elena Ferrante, è stato un film importante per la sua carriera. Che ricordo ha di quell’esperienza?
«Io credo che “L’amore molesto” sia stato il miglior film di Mario Martone. Dal punto di vista registico era perfetto. Quando uscì nelle sale, era il 1995, nessuno degli attori era conosciuto al grande pubblico (nel cast c’erano, tra gli altri, Peppe Lanzetta, Licia Maglietta, Francesco Paolantoni, ndr). Eravamo tutti presi da un entusiasmo giovanile. Eravamo allegri e tenaci, insomma c’era una bella energia».

Quali sono i registi che considera suoi maestri?
«Ne ho avuti tanti, a cominciare da Ronconi. Ma voglio citarne uno che è stato prima attore, per questo sa comprendere gli attori fino in fondo: Otomar Krejĉa. Ho avuto la fortuna di essere diretta da lui ne “Le tre sorelle” di Cechov, era il 1981. Mai come allora mi sono sentita davvero compresa. Era come se conoscesse da dentro tutto il processo creativo. Un vero maestro».

A proposito di maestri, in teatro ha lavorato anche con Toni Servillo…
«Toni Servillo è un attore con il quale mi sono formata. Devo dire che siamo molto simili».

Trova che sia cambiato il modo di fare teatro?
«Purtroppo trovo che ci sia poca attenzione alla qualità dei progetti. Si dà molta importanza a spettacoli costosi, ai grandi attori, ai grossi progetti. Ma spesso si tratta di lavori che vedi e dimentichi subito dopo. Allora mi chiedo: che senso ha? Quando vai a teatro, deve rimanerti qualcosa dentro, soprattutto ora che viviamo tempi così bui, fra guerra, pandemia, povertà... Proprio perché viviamo in un periodo così carico di angoscia credo che la gente sia più disposta a lasciarsi andare. Io penso che la chiave di tutto sia l’intensità. Anche se uno spettacolo è leggero, se è intenso vuol dire che ha fatto centro. Stiamo dimenticando tutto troppo in fretta, per questo c’è bisogno di intensità, per lasciare un segno nell’animo della gente».

A teatro la vedremo anche nello spettacolo di Fanny e Alexander “Addio fantasmi” dal romanzo di Nadia Terranova, con Valentina Cervo. Che rapporto ha con la letteratura contemporanea?
«In generale amo i libri che prendono alla pancia. Gli scrittori contemporanei li leggo solo se consigliati. Alla mia età non si può perdere tempo. Naturalmente ho apprezzato il romanzo di Nadia Terranova. “Addio fantasmi” indaga il rapporto fra una madre e una figlia, che vivono un dramma terribile».

Vuole anticiparci i suoi prossimi progetti?
«Sto lavorando al primo film diretto da Francesco Frangipane, tratto da un suo spettacolo teatrale. Poi arriverà la nuova stagione della serie tv di Sky, “Il re”, con Luca Zingaretti. Infine, c’è un progetto al quale tengo molto: il nuovo spettacolo di Pascal Rambert prodotto dal Teatro Piccolo di Milano. Debutterà a maggio. Amo moltissimo il modo in cui Rembert lavora. Capita di rado che un regista scriva su di te. Lui ha incontrato e scelto i suoi attori, dopo averne visti tanti, e ora scrive su di loro, me compresa. Lo trovo meraviglioso».