Il minimalismo americano. La ricerca italiana. E nomi forti. Tour, tra scultura e pittura, in “Una collezione inattesa”. Alle Gallerie d’Italia, a Milano

Il mondo dell’arte oggi non ha vita facile. Nel corso della storia ciclicamente ha trovato nello sconcerto l’elemento cardine di un lessico che ha contribuito ad aprire questo settore al pubblico. E se ormai dalle Gioconde con i baffi agli squali in formaldeide sono tante le opere che hanno segnato il corso dell’arte contemporanea e rimarranno nell’immaginario, oggi lo shock è impossibile da raggiungere: come si fa a competere con TikTok, che racchiude il mondo veloce a portata di polpastrello? Ecco che allora i salti mortali non stupiscono più e anche il feticcio della novità a tutti i costi svanisce. Tutto sta, dunque, nello scegliere la vitalità anziché la novità e sembra proprio questo a guidare l’ultima avventura di Gallerie d’Italia, rete museale che tra Milano, Napoli, Torino e Vicenza espone il patrimonio artistico di Intesa Sanpaolo e anima imprese artistiche d’ogni sorta e genere: stiamo parlando di “Una collezione inattesa. Viaggio nel contemporaneo tra pittura e scultura” (fino al 22 ottobre), un allestimento temporaneo curato da Luca Massimo Barbero nella sede milanese di Gallerie d’Italia, un percorso che connette tre palazzi storici tra Piazza della Scala, via Manzoni e via Morone, con 8.300 metri quadri dedicati all’arte. Non una mostra, insomma, ma un rimescolamento delle carte in tavola con opere della collezione generalmente non esposte perché «vogliamo che la gente non venga per riconoscere, ma per conoscere», dice Barbero.

Si parte dal Salone Scala del palazzo che fu la sede storica della Banca Commerciale Italiana, dove prima che il sito venisse adibito a museo c’erano gli sportelli. È altissimo e i vetri sul soffitto lo fanno percepire ancora più grande. Grande quanto una galassia, mi viene da pensare, perché a dominare è un gruppo scultoreo bianco e nero fatto di elementi astratti che sembrano impegnati in una battaglia, una sorta di partita a scacchi giocata nello spazio. La regina è Femme Paysage di Jean Hans Arp, marmo bianco del 1966 circondato da opere di uno autore poco conosciuto, Bruno De Toffoli: appaiono come forme organiche di un sogno erotico, come l’ossimoro di nebulose granitiche e ostinate. Appena dietro vediamo Fernand Léger con Le tounesol (1952) a confermarci che siamo in un altro sistema solare, con una ceramica che con i suoi raggi cattura e riflette i colori. Ma procediamo con ordine, con quelle cappelle che un po’ ricordano anche gli spalti che consentono alle opere di assistere al “conflitto” centrale: c’è la Pisana, gesso capolavoro di Arturo Marini che ci riporta a un astratto paesaggio italiano attraverso il corpo di una donna che dorme. Un po’ pudicamente le natiche puntano verso la parte meno visibile, ma questo rende tutto più sofisticato e divertente. E se le Pomone di Marino Marini, simbolo di fecondità, vengono presentate sia in pittura, sia in scultura (a testimoniare un periodo di sintesi volumetrica dell’artista che precede quello della distruzione della forma che sarebbe arrivato poco dopo), Manzù si presenta con uno dei suoi noti cardinali, che a noi ancora fa pensare a un alfiere pronto a entrare nella partita che si gioca a pochi passi, ma soprattutto con uno straordinario busto in bronzo. A portarci oltre la superficie ci pensa un Fontana rosso da 14 tagli, uno dei più belli in circolazione, che idealmente scompone il titolo dell’esposizione, prendendo la parola “inattesa” e trasformandola in “attese”, perché è così che Fontana chiamava il motivo iconografico più noto nell’intera sua produzione. Anche lui crea una battaglia, anzi più di una: la prima con l’evocazione di un’invasione di ultracorpi o con una pioggia di meteoriti in bronzo, la seconda su un piatto barocco su cui aggiunge forme che brandiscono una lancia.

«Ogni collezione è un patrimonio straordinario di arte, cultura e identità che consideriamo un bene comune, parte della comunità, e come tale riceve ogni cura e attenzione necessaria», dice il direttore Michele Coppola:«Le opere d’arte si studiano, si restaurano, si ospitano qui per essere condivise con gli appassionati e il pubblico». E l’esposizione sembra una bella occasione per non dimenticare capolavori, per tutelarli e proiettarli verso nuovi lidi, infatti queste sale inseriscono con naturalezza nella scena internazionale giganti come Manzoni, Burri, Castellani. Anche i vasi di Melotti sembrano leggeri e assumono identità antropomorfe, spesso mutuate dalle inflessioni di corpi o volti femminili, o zoomorfe, come nel caso del vaso a forma di pavone, o ancora allusive di un mondo cosmico. E si vede che il curatore Barbero si è divertito nella progettazione: «Tutto questo è prodromico all’allestimento permanente che si trova dopo, come un elemento pronto a portarti in un’altra dimensione, quindi un cannocchiale spaziale non poteva mancare». Si riferisce al corridoio della sala che continua idealmente con una installazione di cubi in sequenza di Sol Lewitt, che ci suggeriscono l’infinito e attraverso i quali vediamo una tela di Richter, che riesce nella magia di calcolare il caos e chiude l’esposizione. O meglio, la apre verso le sale di un museo mozzafiato, tappa imperdibile quando si è a Milano.