È il numero di affiliati di Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta e criminalità pugliese spediti in carcere solo dai Carabinieri. Ma il governo non parla più di questa piaga. E gli avvocati-deputati propongono di limitare le confische dei patrimoni mafiosi

Da anni la parola mafia sembra scomparsa dal vocabolario di governo. Se ne parla negli anniversari, alle commemorazioni degli eroi nazionali assassinati, ma come un problema del passato, un cancro che sarebbe stato debellato dopo la morte dei giudici Falcone e Borsellino, con l'inizio della riscossa dello Stato. Un'emergenza di trent'anni fa, sparita dall'agenda degli attuali ministri. Al punto che oggi in Parlamento importanti esponenti della maggioranza ormai pianificano la grande contro-riforma. Con l'obiettivo non solo di indebolire o abolire il carcere duro, ma anche di limitare le misure patrimoniali, i sequestri e le confische. E addirittura di riscrivere il reato di associazione mafiosa. In nome del cosiddetto garantismo. Ma davvero la mafia è in ritirata, non uccide e non spaventa più nessuno?

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Per ristabilire la verità dei fatti basta esaminare i dati ufficiali dei carabinieri. Dal 2016 ad oggi i militari dell'Arma hanno arrestato, in tutta Italia, 4.371 accusati di associazione mafiosa. Un numero impressionante. Anche perché gran parte delle retate riguardano le solite, sventurate regioni del Sud dove sono nate e cresciute le organizzazioni più forti. In Sicilia, in questi ultimi sei anni, i carabinieri hanno arrestato ben 1.220 presunti affiliati a Cosa Nostra, la prima mafia, la matrice di tutte le altre, che i male informati davano frettolosamente per scomparsa. In Campania i militari della Benemerita hanno spedito in carcere, nello stesso periodo, altri 1.054 accusati per camorra. In Calabria ben 1.260 imputati di 'ndrangheta. In Puglia 478 sospetti associati ai clan specifici di quella regione.

 

Questi dati, raccolti in esclusiva da L'Espresso, dimostrano che la macchina dell'antimafia, trent'anni dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, non è certo diventata inutile, ma al contrario continua a viaggiare al ritmo medio di due arresti al giorno, più di 700 all'anno. E si tratta di cifre parziali, che riguardano solo le indagini dei carabinieri, a cui vanno aggiunte le ordinanze eseguite da polizia e guardia di finanza, soprattutto nel Centro e Nord Italia. Dove i militari dell'Arma hanno arrestato, sempre e soltanto dal gennaio 2016 al maggio 2022, altri 214 presunti affiliati alla 'ndrangheta. Per confronto, negli stessi sei anni i carabinieri hanno incarcerato, in totale, 112 presunti affiliati alle diverse mafie straniere.

 

Nei palazzi delle istituzioni, però, oggi si discute soprattutto di come limitare l'azione antimafia. L'Unione delle camere penali, dopo che i suoi rappresentanti hanno incontrato in parlamento, il 30 maggio scorso, il sottosegretario alla giustizia di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto, e altri avvocati-deputati, ha proclamato «l'urgenza di ristrutturare in senso garantista l'intero sistema delle misure di prevenzione», che i legali considerano «smaccatamente inquisitorio». L'apposito Osservatorio del sindacato dei penalisti ha già scritto «un documento articolato» per riunire «i diversi disegni di legge depositati sia alla Camera che al Senato». Per la controriforma dell’antimafia, insomma, sembra solo questione di tempo: la volontà politica c’è. 

 

Le misure di prevenzione sono le prime norme varate in Italia, a partire dal 1965, in risposta alle precedenti raffiche di stragi e omicidi di Cosa Nostra. Nel 1982 sono state ampliate e rafforzate dalla storica legge intitolata a Pio La Torre, la stessa che ha introdotto e punito per la prima volta il reato di associazione mafiosa. Sono le norme che in questi 40 anni hanno consentito, a Falcone e a molti altri giudici, di confiscare enormi ricchezze ai clan mafiosi.

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Oggi, di fronte a tanti progetti di contro-riforma, a prendere posizione sono pochissime personalità, tra cui spicca il giurista e scrittore Giuliano Turone. È l’ex giudice istruttore che nel 1974 arrestò a Milano il sanguinario boss corleonese Luciano Leggio (detto Liggio) e poi scoprì la P2 grazie a un’altra indagine importantissima, fatta insieme a Falcone, che riguardava i complici mafiosi del banchiere criminale Michele Sindona. In questi giorni Turone ha ricostruito tutta la storia e l'importanza delle misure di prevenzione in un saggio per l'associazione antimafia Avviso pubblico, che si apre con parole chiare: «Modificare l’articolo 416 bis? Considerare "desueta" la definizione giuridica di associazione mafiosa? Per favore, no!». Tra l’ex giudice Turone e certi giuristi politicanti di oggi c’è la stessa differenza di altezza morale che separa il Monte Bianco dalla Fossa delle Marianne.