Giappone, il fallimento della Abenomics
E ora si parla anche di rischio default
Nel paese asiatico i redditi sono in calo del 6 per cento, con lo Yen a picco e il debito fuori controllo. Eppure c’è ancora chi crede nel premier, nonostante la sua ricetta si sia rivelata fino ad ora disastrosa
Abe è un grande imbonitore. Come lo era Koizumi, a suo tempo. Solo che Koizumi giocava con le parole. Con i numeri, come cerca di fare Abe, è più difficile. Anzi, impossibile. E infatti il peggio deve ancora venire». Jesper Koll, analista finanziario per JpMorgan Securities, non ha dubbi: l’Abenomics è fallita e il Giappone rischia, in prospettiva, il default. «Fossi un giovane giapponese, mi preoccuperei, e molto, di quello che può succedere in questo Paese». Ma il giudizio negativo di Koll e di molti altri non è condiviso da tutti gli “esperti” del Giappone e, più in generale, gli economisti.
Dopo appena due anni è troppo presto per esprimere un giudizio, e bene ha fatto Shinzo Abe a chiamare gli elettori in anticipo alle urne, sostengono i suoi difensori. Solo con un nuovo, forte mandato il premier potrà infatti scoccare l’ultima, decisiva freccia: quella delle riforme strutturali. Una parola, replicano gli oppositori: invece di procedere a passo spedito verso la razionalizzazione e l’apertura dei mercati e l’internazionalizzazione del lavoro (leggi immigrazione) Abe sta di fatto remando contro corrente, esattamente come hanno fatto, sinora, i suoi predecessori. Il mercato agricolo (settore elettoralmente strategico) è più sigillato che mai. Per garantire una serie di privilegi e sussidi (ed assicurarsene il voto pesante) a poco più di centomila contadini del Tohoku - la zona più colpita dallo tsunami del marzo 2011 - Abe continua a sacrificare 50 milioni di famiglie costringendole a pagare la spesa più cara del mondo: i giapponesi spendono infatti per mangiare quasi il 20 per cento del loro reddito, contro il 6 per cento degli americani ed il 13 degli italiani.
Certo, i giapponesi hanno il palato fine ed il culto della sicurezza e genuinità del cibo: e mangiar bene costa. Ma i consumatori del Sol Levante non hanno l’anello al naso. Sanno scegliere eccome: basta vedere il successo dei prodotti enogastronomici italiani, una delle poche voci attive del nostro ormai misero interscambio commerciale.
La storia che i giapponesi vogliono mangiare solo il loro prezioso (per quanto costa in sussidi) riso non regge più. Difficile che un giapponese, anche professionista del ramo, riesca a distinguere tra un sushi preparato con koshikari, la migliore qualità di riso locale, e uno invece che utilizzi lo yumenishiki, una variante italiana coltivata in Emilia e Piemonte che ha inanellato una serie di riconocimenti e che viene ormai utilizzata da quasi tutti i ristoranti giapponesi europei (quelli veri) ma che in Giappone, appesantita da una tariffa dell’800 per cento, finisce per costare come un tartufo.
E allora perché non lasciar decidere al dio mercato, che tutti ipocritamente invocano per poi ripudiarlo alla prima occasione? Perché imporre tariffe stratosferiche su riso, orzo e grano saraceno, o inventarsi balzelli differenziati a seconda della forma dei cetrioli? Laddove a quello dritto e sottile, che i giapponesi chissà perché preferirebbero (più facile da tagliare, dicono) e comunemente coltivato (sarebbe meglio dire “allevato”, vista l’attenzione con la quale se ne controlla crescita e postura) si applica il 3 per cento mentre a quello contorto e bitorzoluto, tipico delle campagne “straniere”, ben il 5? La risposta è semplice. Perché un voto nelle campagne, grazie ad una legge elettorale più volte dichiarata incostituzionale ma mai modificata, vale anche cinque volte quello dei centri urbani. I conti tornano, in questo caso, ma non sono economici, sono politici. Per non parlare di altri settori: quello farmaceutico, ad esempio, segnato da pesanti tariffe e ancor più inaccessibili regolamenti. E quello della telefonia. Il Giappone è uno dei pochi Paesi al mondo dove ancora non si possono acquistare - se non sottoponendosi a lunghe e poco trasperenti procedure - i telefonini “sbloccati” (si possono usare solo con la sim dell’operatore con cui si fa il contratto).
L’Abenomics, dunque, è ancora viva. Ma comincia a dividere. E non solo tra oppositori e sostenitori. Anche tra questi ultimi c’è oramai chi dissente più o meno pubblicamente dalla decisione di Abe di rimandare ulteriormente il redde rationem fiscale e incassare un facile, anche se probabilmente effimero, successo elettorale. Uno di questi è nientedimeno che Haruhiko Kuroda, amico personale di Abe che in passato ne aveva favorito la promozione al vertice della Banca Asiatica per lo Sviluppo e che da quando è diventato Governatore della Banca Centrale ha fatto di tutto – tranne che far piovere i soldi dagli elicotteri, ipotesi che nel corso di una conferenza stampa, con inusuale senso dell’humour, non ha voluto tuttavia escludere – per pompare denaro fresco in una economia malridotta. Ma non messa poi malissimo come – da buon imbonitore che tende a peggiorare l’immagine di partenza per poi spacciare per trionfo un piccolo risultato positivo – aveva fatto credere Abe ed il suo governo, a inizio mandato.
Un dato per tutti: l’indice dei prezzi, negli ultimi vent’anni era sceso dello 0,01%. «In pratica abbiamo registrato vent’anni di stabilità dei prezzi, altro che insostenibile deflazione», commenta, ironico, Richard Katz, fondatore e direttore dell’Oriental Economist, sostenitore prima, duro critico oggi dell’Abenomics. Il governatore Kuroda non ha fatto mistero del fastidio con cui ha incassato il “tradimento” di Abe rispetto al nuovo, programmato aumento dell’Iva e che fino all’ultimo ha cercato di fargli mantenere. Alla fine ha fatto buon viso a cattivo gioco: «La politica fiscale la fa il governo e l’approva il Parlamento, non la Banca Centrale», ha commentato. Kuroda ha assicurato che la Banca del Giappone continuerà a sostenere il governo acquistanto i titoli di Stato che ha intenzione di emettere (fino a 660 mila miliardi), compresi quelli quarantennali, di difficile sottoscrizione da parte anche di tranquilli risparmiatori come sono i giapponesi che il governo ha assicurato frutteranno ben l’1,25 per cento. Una pacchia, se si pensa che i titoli a due anni portano già interessi negativi.
Negli ultimi due anni, ad aumentare, grazie alla picchiata dello yen (crollato sia nei confronti dell’euro che del dollaro) sono stati solo i profitti delle grandi aziende, mentre il reddito delle famiglie è calato del 6 per cento.
«Abe ha fatto sicuramente bene a rimandare l’aumento dell’Iva», spiega Giovanni Capannelli, chief analist presso la Banca Asiatica dello Sviluppo. «È ovvio che tra lo spauracchio del disavanzo esorbitante e la mancata crescita bisogna puntare su quest’ultima». Basta guardare all’Europa, per capirlo. Il problema di Abe è che finora è stato molto fortunato: dalla scelta, certamente non sua, del termine “Abenomics” a quella dei collaboratori che lo circondano, primo fra tutti il governatore Kuroda.
Ma per il resto, l’Abenomics è aria fritta. «Tutte le riforme annunciate, e per ora non realizzate sono vecchie. Già proposte e discusse», ancora Capanelli, «come quella sull’immigrazione, fondamentale. Ma dubito che un conservatore come Abe abbia il coraggio di portarla avanti».Insomma: il Giappone come l’Italia? Capanelli: No. Da noi di politiche per la crescita ancora non se ne vede l’ombra, e poi quello che cambia è la struttura del debito pubblico. Anche se il rapporto debito/Pil è più alto, in Giappone i soldi pubblici vengono spesi per opere infrastutturali che vanno ad aumentare il patrimonio nazionale. In sostanza ci sono molte sofferenze, ma a fronte di altrettanti asset. In italia ci sono solo sofferenze e non più asset. A parte i musei e i monumenti storici, che tra l’altro qualcuno ogni tanto vorrebbe vendere».