Giappone, il Sol Levante è tramontato Racconto di un paese di fronte alla crisi
Il divario tra ricchi e poveri aumenta, le riforme annunciate non sono state portate avanti, in politica estera i rapporti con i "vicini" peggiorano. Così il gigante orientale deve affrontare difficoltà senza precedenti
Signor Primo Ministro, perché bisogna tornare a votare? Papà dice che è una perdita di tempo e di denaro… Lei che dice?”. “Signor Primo Ministro, com’è che la sua politica economica non funziona? Gli stipendi di mamma è papà non sono aumentati, e nemmeno la mia paghetta. Allora lei dice le bugie come Pinocchio?”. Proprio così, Pinocchio.
Per un paio di giorni il sito di Yamato Aoki, uno studente di 20 anni che faceva finta di averne 11 e bersagliava il premier Shinzo Abe, 60 anni, con domande tanto impertinenti quanto efficaci ha spopolato sulla rete. Un fenomeno inconsueto, in Giappone, dove la politica, ormai da molto tempo, non fa audience e la satira, per quel poco che circola, utilizza spesso codici a noi inintellegibili. Ma stavolta è diverso. Avvertito dai suoi “spinners” (pare ve ne siano di altamente qualificati, anche uno straniero, che lo consigliano), è il premier in persona che interviene. “Caro Aoki”, scrive Shinzo Abe dal suo sito ufficiale di Facebook, “non sta bene prendere in giro la gente. So che non hai 11 anni. Metti la tua intelligenza al servizio del Paese, invece di divertirti a provocare. A meno che tu non sia parte di una organizzazione sovversiva nel qual caso sarai punito in base alla legge. In ogni caso, quello che stai facendo è profondamente spiacevole”.
Terrorizzato (nel Paese circola una brutta aria e basta un sospetto per essere fermati e trattenuti sino a 23 giorni, senza vedere un giudice e potendo conferire con un avvocato solo per dieci minuti al giorno ), Aoki è subito uscito allo scoperto, ha chiesto scusa a tutti ed il suo sito è sparito. Anche se qualche media locale è riuscito a catturarne le ultime schermate, compreso il post del premier.
È la cosa più divertente successa nel corso di una campagna elettorale tanto breve quanto scontata e probabilmente inutile. Come inutili sembrano essere - al di là di improbabili sorprese - le elezioni che il “principino nero” Shinzo Abe, nipote di un criminale di guerra al quale dichiara di essere ancora oggi particolarmente legato e di volervisi ispirare (Nobusuke Kishi, “pacificatore” della Manciuria e ministro dell’Industria e degli armamenti durante la guerra) ha deciso improvvisamente di indire (si vota il 14 dicembre) per verificare la popolarità della sua famosa “Abenomics”. Ed evitare, sospettano in molti, di sottoporsi al giudizio degli elettori fra due anni, alla scadenza naturale di un mandato che doveva essere eterno, e che invece rischia di finire in un disastro. L’Abesfascio.
«Una mossa idiota e offensiva per l’elettorato», ha tuonato dalle colonne dell’“Asahi Shimbun” uno dei più famosi commentatori locali, Shoichiro Tahara. «Il premier Abe con queste elezioni mostra tutta l’arroganza e l’inettitudine di una classe politica che rischia di portare il nostro Paese alla rovina». Non sembra aver tutti i torti, Tahara: a due anni dal probabilmente irripetibile trionfo elettorale del 2012, Shinzo Abe si presenta al voto con il proprio indice di gradimento in picchiata e con un Paese che lungi dall’essersi “sbloccato” (qui si usa il termine “ripartenza”…) come aveva promesso di ottenere con le famose tre frecce della sua Abenomics, è di nuovo in recessione (l’unico in tutta l’Asia Orientale e in compagnia dell’Italia all’interno del G8), con un debito pubblico ormai senza controllo (oltre il 230 per cento, quasi il doppio di quello italiano, e comunque il più alto del mondo industrializzato), una politica estera a dir poco fallimentare che lo ha praticamente cancellato dallo scenario internazionale e un paio di bombe ad orologeria in qualche modo sincronizzate: aumento dell’aspettativa di vita e calo delle nascite.
Basta fermarsi davanti ad un incrocio, o entrare in un grande magazzino, per capire che il Giappone è un Paese di vecchi. E dove i giovani sono preoccupati. «Avremmo bisogno di politici onesti e coraggiosi», confessa Mariko Yamashita, 24 anni, impiegata, una delle poche passanti che si ferma volentieri a chiacchierare, nel centro commerciale di Shinjuku. «E invece si fermano tutti al primo ostacolo, pensando al proprio tornaconto. Io fossi stata in Abe sarei andata avanti con l’aumento dell’Iva. Prima o poi dovremo farlo e averlo rinviato dimostra che Abe è interessato solo al potere, a guadagnare un altro mandato. Nel frattempo io continuo a fare la precaria, a non potermi sposare, fare figli e pensare di potermi comprare una casa».
La decisione di aumentare l’Iva - imposta storicamente indigesta per i giapponesi e la cui prima introduzione, negli anni ’80, provocò la caduta di vari governi - non è, in effetti, del governo uscente (e probabilmente rientrante). Risale alla precedente, breve e travagliata amministrazione democratica, l’unica che, tra tanti errori, aveva individuato la via giusta verso una qualche forma di “fiscal compact” e per ridurre l’incubo del debito più alto del mondo: 8 mila miliardi di dollari. L’ex premier Naoto Kan, prima di dimettersi nell’agosto 2011, era riuscito a concordare con l’opposizione due importanti decisioni: l’uscita progressiva dal nucleare (con l’approvazione di un “pacchetto” di incentivi per la produzione e l’uso delle rinnovabili) e una politica di riforma fiscale che aveva al suo centro l’aumento, graduale, dell’Iva, che all’epoca era ancora ferma al 3 per cento.
Arrivato al potere Abe ha fatto (o quanto meno ha anunciato di voler fare: i reattori sono ancora tutti fermi) marcia indietro sul nucleare, riacceso le polemiche con i Paesi vicini a causa del suo reboante quanto pericoloso revisionismo storico (salvo dover poi ridursi a pietire una brevissima, umiliante udienza con il leader cinese Xi Jinping, il mese scorso) ma confermando l’impegno a “far cassa” nell’unico modo veloce ed efficace, in un Giappone dove l’evasione fiscale tra le imprese ed i liberi professionisti è diffusa quanto “protetta” dall’assenza di controlli e generosissime detrazioni: aumentando l’Iva.
L’impatto però è stato micidiale. Dopo l’ultimo aumento dal 5 all’ 8 perr cento, lo scorso aprile, l’economia, appena ripresasi dopo vent’anni di «malessere diffuso», per dirla con Eisuke Sakikabara, docente di economia all’ “Aoyama Gakuin” e noto in passato come “Mr. Yen” per le sue teorie favorevoli ad uno yen forte, si è di nuovo bloccata, prima di cominciare di nuovo a comprimersi. «Stanno scherzando con il fuoco», sostiene Sakikabara, «dopo il meltdown di Fukushima qui rischiamo il meltdown della Borsa».
Pompare denaro nell’economia non basta, continua Sakakibara, se poi a beneficiarne è il solito cerchio magico delle banche e delle grandi imprese. «Sarebbe stato molto meglio distribuire i soldi dagli elicotteri, come ebbe a suggerire a sua volta, non so quanto scherzosamente, l’ex governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke: almeno in questo modo anche la gente comune ne avrebbe beneficiato, facendo ripartire i consumi».
In Giappone non è avvenuto. E mentre il quasi sconosciuto fattore Gini - che misura il divario di classe e la reale distribuzione del reddito - mostra che, come in Italia e negli Usa (e a differenza della maggior parte dei Paesi emergenti), i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri (con conseguente contrazione della classe media, cui l’80 per cento dei giapponesi dichiarava di appartenere, negli anni ’80), anche il Sol Levante mostra segni di una stanchezza e di un disorientamento socialculturale che vanno ben al di là dei pur sempre reversibili, in un Paese industrialmente ancora robusto e tecnologicamente avanzato, dati economici. «Quello che è venuto a mancare è il “nibe”, il collante sociale che nel corso dei secoli, anche nei momenti più bui ha tenuto assieme il nostro popolo», commenta ancora Shoichiro Tahara. «Fino al secolo scorso questo collante poteva essere l’imperatore, ma ora ha perso anche questo suo ultimo ruolo. La gente è disorientata, impaurita, preoccupata. E quando un popolo è impaurito diventa più facilmente manipolabile. Dunque pericoloso».
Più che impauriti e preoccupati - e dunque pericolosi - i giapponesi sembrano in trance, in preda ad una sorta di terapia anestetica che li rende incapaci di cogliere, e tantomeno affrontare, le enormi contraddizioni di una società che accanto a servizi pubblici moderni e impeccabili (anche se sempre più cari: assistenza sanitaria e bollette elettriche sono aumentate del 30 per cento negli ultimi due anni), bassissima microcriminalità (quella politica/finanziaria è invece in ottima salute, ma meno visibile) ed esempi di eccellenza in tutti i settori della tecnologia, dell’arte e dello spettacolo, non riesce a “crescere”, ad integrarsi nella comunità internazionale e a ritagliarsi il ruolo cui potrebbe e dovrebbe aspirare. Se sull’Abenomics c’è ancora chi sospende il giudizio, è sull’immagine internazionale del Giappone che il governo di Abe ha dato - e rischia di dare se l’elettorato non troverà il modo di “punirlo” - il peggio di sé.
Abe, lo abbiamo già ricordato, è il nipote di un ex criminale di guerra sfuggito alla forca per aver alla fine aiutato gli alleati a venire in possesso di “segreti” militari (tra i quali, si dice, quelli relativi alla micidiale “Unità 731”, un gruppo di medici giapponesi che testava per conto dell’Armata Imperiale l’effetto dei virus e dei batteri inoculati nei prigionieri di guerra, per la maggior parte russi e cinesi).
Nel breve giro di due anni al governo è riuscito a cancellare i lunghi e faticosi sforzi compiuti dal Giappone (o meglio, dai pochi leader illuminati che l’hanno governato in passato, come l’ex premier Tomiichi Maruyama e l’ex ministro degli esteri Yohei Kono) resuscitando i più biechi risentimenti revanchisti e imponendo l’ennesima revisione ai testi scolastici che erano già famosi per le loro omissioni, se non vere e proprie bugie. Il tutto permettendosi di alzare la voce nei confronti di vicini (Corea e Cina) che ancora sentono viva la tragedia di un’aggressione e un’occupazione tra le più violente e sanguinose della storia.
Al di là delle più o meno fondate ragioni di diritto, sta di fatto che il Giappone è l’unico Paese dell’Asse a non aver ancora chiuso i conti con il passato: dalle controversie territoriali (le ha, aperte, con tutti i suoi vicini) a quelle dei risarcimenti (nei confronti della Corea del Nord), per poi confluire tutte nella questione più importante: senso “sekinin”. Il senso di responsabilità, di consapevolezza del male inferto, e del relativo, sincero, “pentimento”.
L’Abesfascio è riuscito da un lato a resuscitare il revanchismo dei vecchi, dall’altro a mantenere nella più assoluta ignoranza i giovani, la stragrande maggioranza dei quali, ad esempio, sa che il Paese ha combattuto e perso con dignità una sacrosanta guerra “di difesa” contro gli Stati Uniti, ma non di aver aggredito, umiliato e massacrato milioni di cittadini asiatici, nel tentativo di “liberarli”.
Forse è per questo, come notava anni fa Ian Buruma, (“Giappone senza colpe. Il passato che non passa”) che in Germania chi nega l’Olocausto viene arrestato o comunque additato al pubblico ludibrio e in Giappone, chi nega il massacro di Nanchino o quello, molto meno noto, di Singapore (50 mila cinesi passati per le armi a scopo di “deterrenza”), come fanno Shinzo Abe ed il suo degno compare Taro Aso, possono diventare, ed essere perfino rieletti, premier.