I saccheggi, le stragi, gli stupri di massa. Un ex piccolo combattente racconta gli orrori della guerra civile, i tentativi di fuga, le torture subite e la fatica di ricominciare (Foto di Francesco Alesi)

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«Sono stato costretto ad arruolarmi quando avevo 13 anni. I ribelli hanno fatto di me un comandante solo perché parlavo un po’ di inglese, sapevo leggere e scrivere, ma anche perché ero stato il primo fra le nuove reclute a uccidere in battaglia». Sunday, 18 anni, oggi sta seguendo un corso di formazione per diventare muratore in un centro sostenuto da Unicef e altre organizzazioni a Yambio, una cittadina del Sud Sudan, vicino al confine con il Congo. È uno dei luoghi dove la piaga dei bambini soldato ha colpito più duramente durante la guerra civile, facendo detenere al Paese più giovane del mondo un triste primato: quello dello Stato con più minorenni in armi (e ancora oggi circa 19 mila si troverebbero nei ranghi dell’esercito nazionale o dei numerosi gruppi ribelli, secondo l’Unicef). Tutti ne hanno abusato per anni, quasi fossero una risorsa imprescindibile per combattere.

La voce di Sunday si fa fioca, quasi impacciata quando si tratta di raccontare la sua adolescenza. Momenti che un essere umano preferirebbe dimenticare o addirittura mai dover affrontare. Ancora troppo giovane, Sunday è stato obbligato dal padre ad arruolarsi con i ribelli, i cosiddetti IO’s (principale forza ribelle in contrapposizione al governo): «Sono rimasto con loro per 3 anni. Hanno ingannato mio padre, dicendogli che c’era un lavoro e che avevano bisogno di gente giovane. Tutto è cominciato così».

Il suo sguardo è costantemente rivolto verso il basso, segno che fa ancora troppo male il ricordo di aver lasciato scuola e famiglia per andare in guerra. I suoi occhi portano tuttora i segni del trauma. Una violenza che ha colpito troppi ragazzini ancora indifesi e che non hanno potuto scegliere. Mentre Sunday entra nei dettagli della sua storia, le sue mani afferrano la sedia sulla quale siede al riparo di un albero, quasi a trattenersi.

«Dopo giorni di cammino sono arrivato all’accampamento. Era nel nord del Paese, in mezzo alla selva. Insieme alle nuove reclute, ho cominciato l’addestramento. Ci insegnavano solo ad ammazzare per sopravvivere. La maggior parte delle nostre azioni era andare a saccheggiare i villaggi e uccidere chiunque si trovasse sulla nostra strada. Soprattutto perché avevamo fame. Quando poi sono diventato comandante, dovevo occuparmene io, guidando un gruppo di soldati a volte più grandi di me. Erano gli ordini: difficili per un bambino diventato comandante in poco tempo».

Sunday è il portavoce di tutte le anime che oggi vogliono gridare al mondo che è stato tolto loro un diritto fondamentale: quello di vivere la propria infanzia felice. Un testimone diretto della morsa che ha stretto il suo Paese in una brutale guerra civile per 5 anni, cominciata nel 2013 e terminata con il trattato di pace firmato a Khartum lo scorso 28 ottobre fra i due uomini forti che hanno scatenato l’inferno per una lotta di potere: il presidente Salva Kiir e il suo ex-vice Riek Machar.

Sono loro ad aver dato vita a uno scontro fra l’esercito nazionale, lo stesso gruppo armato che ha guidato il paese all’indipendenza nel 2011 (Esercito per la liberazione del popolo sudanese, oggi rinominato Forze di difesa popolare sud sudanese) e un movimento nato dalla sua scissione e chiamata Spla, guidata da Machar. Per rimpolpare i contingenti di entrambi gli schieramenti molti minorenni sono stati costretti a diventare adulti troppo presto, facendo fatica a brandire un fucile, a trattenere le proprie emozioni e subendo traumi psicologici forse irreversibili.

Non erano solo carne da macello: cucinavano, portavano l’acqua, spiavano, facevano la guardia. A volte arrivavano di spontanea volontà o erano mandati dai genitori per ragioni di sopravvivenza. Una contraddizione diventata regola nelle regioni controllate dai ribelli, tagliate fuori da tutti i servizi come l’educazione, la sanità o l’alimentazione. Oppure, nelle regioni controllate dal governo, i soldati minacciavano i genitori di requisire il loro bestiame: le mucche, sinonimo di ricchezza, a volte più importanti dei figli.

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In mezzo alla guerra civile, ai combattimenti, alle razzie e agli stupri indiscriminati però, Sunday non ha resistito: «Un anno esatto dopo la mia partenza, a 14 anni, non riuscivo più a sopportare tutta quella violenza. Volevo andare via. Ho trovato il modo di fuggire, tornando a casa mia, nel mio villaggio, sui banchi di scuola. Ma non facevo che pensare a come uccidere le persone, a come stuprare le ragazze. Non stavo per niente bene, anche perché sapevo che sarebbero venuti a cercarmi».

Dopo qualche mese infatti, i ribelli lo hanno scoperto e lo hanno riportato all’accampamento. «Il comandante ha ordinato che mi mettessero nella buca. Era un fosso scavato nel terreno e coperto da un pezzo di alluminio che era usato per punire chi disobbediva. Mi ci hanno lasciato due giorni e due notti senza mangiare e senza bere. Quando mi hanno tirato fuori, mi hanno picchiato quasi a morte. Non avevo più le forze di andarmene e volevo solo suicidarmi. Si combatteva spesso in quel periodo. Un giorno, ricordo che i soldati del governo ci hanno teso un’imboscata alle 6 del mattino, quando ancora stavamo dormendo. Molti di noi sono morti, compresi alcuni comandanti. Siamo riusciti a fuggire, rifugiandoci in un accampamento vicino e, insieme ai rinforzi, abbiamo respinto l’attacco».
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Il combattimento, fatto di sparatorie alla cieca fra un lato e l’altro o attacchi all’arma bianca, e i saccheggi, non erano gli unici modus operandi usati dai ribelli e dai governativi. Gli stupri di massa erano all’ordine del giorno e il bottino di guerra più ambito erano proprio le donne. Rapite dai ribelli, alcune servivano nei ranghi come combattenti. Ciò nonostante, la maggior parte diventavano cuoche, schiave sessuali o mogli. «A volte ci inviavano in città dicendoci di prendere le ragazze che ci piacevano», continua Sunday imbarazzato. «Potevamo rapirne una a nostro piacimento e farne nostra moglie oppure le portavamo ad altri soldati al campo o le facevamo diventare combattenti. Io ne ho ricevuta una. Non ho avuto scelta. Quando arrivavano al campo erano impaurite ma non potevano scappare. Non sapevano dove andare. Erano ragazzine».

L’esperienza diretta l’ha fatta Joyce, oggi 15enne ma che è stata rapita a poco più di 10 anni per combattere e la sera… servire ancora. «A noi piccoli non davano un fucile ma un coltello. Se prendevamo prigionieri toccava a noi sgozzarli. E se non lo facevamo uccidevano noi. Quando ammazzavo sentivo di voler scappare ma non sapevo dove andare», racconta la ragazzina, oggi fuggita in un campo profughi nel nord dell’Uganda dalle terre di Yambio, le stesse di Sunday. «Quando sono arrivata in Uganda, dopo una settimana di cammino, volevo solo uccidere. Ci ho messo un attimo a rendermi conto che ero in un luogo differente. Ma la comunità dove vivo, compreso mio padre, ha cominciato a insultarmi e abusare di me. Dicono che sono un’assassina. Non posso parlare con nessuno qui. Ho molti traumi e sono senza sostegno. Voglio solo stare in luogo silenzioso. Solo così posso trovare la mia libertà», conclude la ragazzina, mangiandosi la pelle del pollice.

Ma per Sunday è stato differente, essendo un comandante. Non poteva scappare, aveva bisogno di un alibi. Un anno dopo il suo ritorno e l’esperienza della buca, ha quindi escogitato un altro modo di andarsene: «Ho chiesto al comandante un periodo di congedo. Mi ha detto di partire per 2 mesi, minacciandomi però di morte caso in cui non fossi riapparso. Quando sono partito, ho giurato che mai più sarei tornato, anche a costo di morire. Tutte le cose orribili che avevo vissuto non le volevo nemmeno ricordare. Passati i due mesi, quindi, mi sono nascosto in questo centro. Sapevo che sarebbero venuti a cercarmi ancora. È successo più volte, hanno distrutto casa mia e rubato tutto. L’ultima volta è stata in novembre, anche se era più di un anno che ero fuggito».
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Grazie ad Unicef, tuttavia, Sunday, come altri 3 mila bambini della regione, ha ottenuto l’agognata libertà. Non ha più dovuto nascondersi. Nella regione di Yambio, l’agenzia Onu ha pattuito con vari gruppi ribelli e con il governo il congedo di migliaia di minorenni in segno di pace, riconciliazione e rispetto per i diritti umani, aiutandoli con un programma di sostegno di 3 anni ricevendo educazione, sanità e sostegno psicologico. Un barlume di speranza, insomma.

«Ricordo bene il giorno del mio congedo. Era esattamente un anno fa. Anche se non avevo nulla, ero felice. Sapevo che ormai era tutta acqua passata. Più difficile però, è stato ritornare all’interno della mia comunità. All’inizio non si fidavano di me, avevano paura che facessi loro del male. Ci ho parlato, ho spiegato loro com’era cominciato. Dopo alcune settimane, mi hanno riaccettato. Ho anche ricevuto sostegno psicologico, il che mi ha aiutato a superare vari traumi. Ora non ho più paura, se qualcuno mi tocca o mi sfiora non reagisco più violentemente come prima. Insieme agli altri compagni del centro, poi, parliamo delle nostre esperienze. Ci aiuta molto. Siamo stati tutti vittime della stessa sorte», racconta Sunday, guardando i suoi compagni mentre lavorano. La cosa più dura da accettare per lui è stato forse il fatto che il padre sia morto ancora quando era nei ranghi ribelli senza dare spiegazioni e che, senza possedere niente, dovrà per sempre vivere nei luoghi che gli ricorderanno la morte, dove tutti negano ogni coinvolgimento con i crimini.

«Ma non porto rancore».