Guida la comunità di Záhony al confine con l’Ucraina e, senza aiuti dal governo e con il sostegno delle ong, l’ha trasformata in un modello per assistere chi fugge dalla guerra

Quando Oksana è arrivata a Záhony, il lembo più a oriente d’Ungheria, Europa, la sera di domenica 27 marzo, non ha detto a nessuno che era il suo compleanno. È stato uno dei dieci piccoli che lei ha salvato da Mariupol, viaggiando per venti ore nella berlina grigia con la scritta «bambini», a informare i volontari. E allora László Helmeczi, il sindaco di questa cittadina impreparata all’emergenza che in poche settimane ha accolto migliaia di profughi dall’Ucraina, si è incaricato di cercarle una torta di compleanno. Si è allontanato dalla tenda ed è tornato con un dolce, cantando insieme agli altri volontari «tanti auguri». Perché Helmeczi, che tiene sempre una giacca di riserva nel suo ufficio ma preferisce indossare felpe e maglioni, parla poco e agisce molto, cercando di regalare a ogni persona in fuga un sorriso.

 

«La mia routine? Dormivo due o tre ore a notte, adesso per fortuna un po’ di più. Mi sveglio, apro la tenda, la chiudo, torno a casa». Nel tendone bianco tirato su in fretta e furia il sindaco passa la maggior parte delle sue giornate. Gira attorno ai tavoli di legno su cui i volontari hanno messo delle piantine di giacinto per dare un senso, passeggero, di casa. Quando le temperature si abbassano, verso sera, offre a tutti un bicchiere di pálinka, un distillato di mele cotogne tipico di questa zona. Sa che impegnarsi in prima linea è il collante migliore per unire la comunità: «Prima ero un imprenditore e mi comportavo allo stesso modo, lavorando sempre a contatto con i miei dipendenti. Se gli altri vedono che sei coinvolto, lo saranno a loro volta». E così è stato. La mattina del 24 febbraio Záhony si è svegliata con la guerra alle porte, alle 18 di quello stesso giorno era già pronta ad accogliere i primi 500 profughi scesi arrivati nell’unica stazione ferroviaria dei cinque punti di frontiera tra Ungheria e Ucraina.

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«Sapevamo già che dopo il treno delle 21,47, l’ultimo da Chop, in Ucraina, non ci sarebbero stati collegamenti con Budapest e che le persone sarebbero dovute restare qui per la notte». In una località che conta 4.300 abitanti, un quarto dei quali pensionati, e dispone di un solo hotel da 15 camere, che non a caso si chiama “Europa”, non è stato facile. «Nella stazione la capienza massima è di 150 posti, il problema era dove mettere tutti gli altri. Soprattutto nei primi giorni siamo stati sommersi dagli arrivi, in media 3 o 4 mila, oggi i numeri sono calati». Trecento li hanno sistemati in fretta al centro culturale. Per raccogliere coperte, vestiti e asciugamani il sindaco ha scritto un messaggio sull’unico gruppo Facebook della cittadina. In poche ore le donazioni si sono moltiplicate. E la comunità si è mobilitata per cucinare pasti caldi e offrire bevande e cioccolata.

Oggi, la geografia di questa frontiera è stata completamente ridisegnata.

 

Residenti e volontari orbitano attorno alle due tende bianche dell’accoglienza. In una, più piccola, la polizia controlla i documenti di chi scende dal treno. Nella seconda, più ampia e con l’angolo dei giochi per i bambini, i profughi, quasi tutte donne, possono tirare un sospiro di sollievo e stringere tra le mani una tazza di tè bollente. Mischiando la gratitudine alla disperazione, ringraziano i volontari a gesti perché non parlano ungherese e quando se ne vanno sorridono sempre dicendogli «spasiba», grazie. Ma non è sempre stato così. I primi quattro giorni di guerra, dal 24 al 28 febbraio, la tensostruttura riscaldata non c’era e il Comune di Záhony era solo ad affrontare l’emergenza. La capienza massima del centro culturale è stata raggiunta in poco tempo e solo dal primo marzo il governo ha messo a disposizione l’edificio dell’unico liceo della città per ampliare la rete solidale. «È l’unico aiuto che abbiamo ricevuto. La struttura è di proprietà statale, gli studenti sono stati mandati in Dad e solo così è stato possibile accogliere i profughi per la notte». Záhony è solo una tappa di passaggio. Chi arriva qui punta a Budapest per spostarsi altrove. Il Comune deve garantire a chi si ferma una sistemazione per la notte e tre pasti al giorno. E chi deve fare i documenti o aspetta di ricongiungersi con i parenti resta anche per più giorni.

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Viktor Orbán, primo ministro ungherese riconfermato per il quarto mandato alle elezioni del 3 aprile, contrario all’invio di armi in Ucraina e alle sanzioni nei confronti della Russia, in campagna elettorale ha visitato Záhony. Spingendosi però solo al posto di confine stradale e non alla stazione dove si registra il maggior numero di ingressi. Prima della visita, alcune televisioni ungheresi hanno filmato la tenda e i volontari al lavoro, ma a livello centrale non è stata stanziata alcuna risorsa per aiutare Helmeczi e i suoi concittadini. «Nei giorni precedenti alle elezioni c’è stato un po’ di movimento, ma sono sicuro che mi lasceranno solo. Abbiamo chiesto 50 mila euro per le spese, ma ancora non ci hanno fornito alcun supporto finanziario, solo promesse».

 

Che servono a poco. Per questo gran parte del lavoro è stato fatto dalle organizzazioni. Le uniche presenti sono World central kitchen, che si occupa dei pasti, e Fondazione Cesvi, una ong italiana impegnata nella logistica e nel coordinamento generale delle attività. «Tutto è iniziato con un accordo che abbiamo proposto all’amministrazione di Záhony votato all’unanimità dai componenti del Consiglio comunale», spiega Andrea Ricci, referente di Cesvi per l’Ungheria. Così, l’organizzazione si è occupata di reperire i donatori per finanziare e costruire la tensostruttura e di coordinare il lavoro di accoglienza, sostenendo una cittadina impreparata a gestire flussi così ampi di arrivi dall’Ucraina. Al momento la tenda rimarrà per tre mesi, prorogabili nel caso in cui l’emergenza dovesse continuare. E Helmeczi non potrebbe esserne più grato: «Oltre al supporto finanziario, il contributo più grande è stato nelle nuove idee e nell’esperienza che Cesvi ha portato sul campo. Siamo la parte più orientale dell’Ungheria, povera ma pur sempre all’interno dell’Unione europea. Fino ad alcune settimane fa sembrava impossibile che una ong italiana fosse interessata a iniziare un progetto qui. E senza il loro aiuto non saremmo riusciti a garantire un sistema di accoglienza così efficiente e rapido».

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Sulla coordinazione delle organizzazioni si innesta il buon cuore dei cittadini, in prima linea nell’ospitalità. C’è chi porta gli involtini di scarola e la torta di mele, cucinati a casa e poi condivisi con gli ospiti della tenda. E quando i bambini scendono dal treno c’è sempre qualcuno pronto ad accoglierli con in mano un peluche e una barretta di cioccolato. «Una risposta così ampia mi alleggerisce di molte responsabilità ma se i numeri dovessero tornare a crescere o i volontari dovessero stancarsi avremo bisogno di un appoggio più grande», ammette il sindaco. Il suo timore è che inizino ad arrivare i profughi anche dalla Transcarpazia, regione ucraina che confina con Polonia, Slovacchia, Romania e Ungheria.

 

«Lì ci sono già moltissime persone fuggite dalla parte orientale del Paese, se decidessero di venire da noi il flusso aumenterebbe a circa 10 mila arrivi giornalieri. Sarebbe una situazione impossibile da gestire». A questo si aggiunge la pressione psicologica a cui è sottoposta Záhony. Chop, la prima cittadina al di là del confine, dista meno di dieci chilometri. E quando le sirene antiaeree suonano in Ucraina, si sentono distintamente anche qui. «La mia comunità è preoccupata, ogni volta che succede chiamo i miei conoscenti a Chop e gli chiedo se posso stare tranquillo», racconta.

 

László Helmeczi  non si perde d’animo. A fine febbraio la sua comunità aspettava l’inaugurazione dell’apertura di un nuovo terminal per i container in arrivo dalla Cina, un’occasione per ampliare l’economia di Záhony. Invece, è arrivata la guerra. E al posto delle merci, sulle rotaie ogni giorno ci sono donne e bambini. Con le loro valigie e i trasportini. «Nei miei due mandati, sono sindaco dal 2014, non siamo riusciti a costruire uno stadio o una piscina. Ma abbiamo creato un senso di appartenenza tra le persone. Non è la prima volta. Qualche anno fa un bambino di qui si ammalò di tumore e tutti si strinsero attorno alla famiglia. Adesso sta succedendo la stessa cosa». Si dilunga ancora qualche minuto nel suo ufficio, lascia la giacca appesa all’attaccapanni e si tiene il pullover: «Torniamo alla tenda bianca».