Le multe pensate da 5 Stelle non funzionano. Perché invece non ricorrere, come in altri paesi, alla revoca del mandato decisa dagli elettori?
Gli automobilisti, si sa, le multe non le pagano; presto sapremo se hanno voglia di pagarle i politici mobili. Giacché l’ultima idea per frenare la Grande Transumanza da un partito all’altro è venuta al Movimento 5 Stelle: una multa da 150 mila euro per chi li abbandoni in corso di legislatura. Verrà applicata a Roma, per i candidati alle prossime comunali, a quanto pare costringendoli a firmare una fideiussione. Si può fare? Si può estendere anche a deputati e senatori, com’è intenzione dei grillini? O lo impedisce, viceversa, la libertà del mandato parlamentare, garantita dalla Costituzione?
Diciamo innanzitutto che l’idea nasce da una cifra di disperazione che coinvolge tutti, non soltanto chi vota per i 5 Stelle. È una soluzione disperata rispetto a una situazione disperante, perché questa legislatura ha travolto ogni record: 167 cambi di casacca al Senato e 170 alla Camera (dati Openpolis), un valzer fin qui ballato da 117 senatori e 132 deputati, dal momento che c’è chi ha cambiato gruppo parlamentare quattro o cinque volte. Il segnale d’una crisi profonda dei partiti, della loro coesione, della disciplina interna che un tempo sapeva farsi rispettare; però anche il segnale di una crisi etica, di un’immoralità diffusa. Se un elettore su due non va più a votare, è colpa dello spettacolo che ci somministra la politica. E infatti la maggioranza degli italiani (il 41% contro il 39%, secondo l’Ipsos) è d’accordo sulla multa.
In questo caso, tuttavia, c’è il pericolo che la toppa sia peggio del buco. In primo luogo perché la sanzione economica afferma ciò che vorrebbe negare, nel senso che rende il partito simile a una società di capitali, anziché a una comunità d’ideali. In secondo luogo, sicuro che la fideiussione sia esigibile davanti a un tribunale? Il caso è nuovo, e il diritto fa sempre resistenza di fronte all’innovazione. Risultato: i deputati dipenderanno dai partiti, ma i partiti finiranno per dipendere dai giudici. Tutto l’opposto rispetto alle intenzioni. In terzo luogo, e soprattutto, la multa rischia d’essere un bastone contro il dissenso interno, un bavaglio sul muso di chi contesta le scelte del gruppo dirigente. Ma se c’è un programma elettorale sottoscritto da ciascun candidato, se in corso di legislatura i capipartito decidono altrimenti rispetto a quel programma (in Italia succede di frequente), allora i fuoriusciti saranno gli unici fedeli all’impegno assunto con i propri elettori. Del resto altro è l’abbandono individuale, altro è un esodo collettivo, di gruppi, di correnti, come in questa legislatura è accaduto già tre volte dentro Forza Italia. Nel primo caso è lecito indignarsi, nel secondo forse bisogna interrogarsi.
In realtà la via maestra sarebbe tutt’altra: il
recall . Antichissimo istituto che deriva dall’ostracismo forgiato nel 510 a.C. dalla democrazia ateniese, come antidoto al potere dei tiranni; e che tutt’oggi viene applicato in mezzo mondo, dalla Svizzera agli Usa, dal Canada al Giappone. In sintesi: ti sei fatto eleggere però non metti piede in Parlamento? Le tue bugie farebbero l’invidia di Pinocchio? Sei il campione dei voltagabbana? Allora una certa percentuale del corpo elettorale può indire un referendum sulla tua permanenza nella carica elettiva.
Ma il
recall è cosa ben diversa dalla multa: intanto perché si traduce in una revoca anticipata, non in un assegno postdatato; e poi perché la sanzione viene stabilita dal popolo, non dal partito. Con il
recall , insomma, sono gli stessi elettori a riconoscersi oppure a disconoscere le scelte del loro deputato.
Il guaio è che per introdurre l’istituto serve una modifica costituzionale, campa cavallo. Serve cioè emendare l’articolo 67, senza sbarazzarsi della libertà di mandato, senza girarla in vincolo imperativo sulle orme di Robespierre e di Lenin; più semplicemente, consentendo una verifica popolare durante lo svolgimento del mandato. Quindi una riga in più, non una riga in meno. E un’altra riga per scrivere la legge sulla democrazia interna dei partiti, che aspettiamo ormai da settant’anni. In conclusione, ai politici italiani serve un po’ d’inchiostro: qualche riga per metterli in riga.