Purezza e contaminazione. Trasparenza e retroscena. Regole e arbitrio. Analisi del M5S nell'anno della grande metamorfosi (Illustrazione di Giuseppe Fadda)
È nato sette anni fa, il 4 ottobre 2009, il giorno di San Francesco. Nel 2013, alle elezioni politiche, ha preso 8 milioni e 792 mila voti. Nel 2016 ha conquistato Roma e Torino. Oggi i sondaggi lo danno a ridosso del Pd, vincente in caso di ballottaggio. Prossimo obiettivo: la regione Sicilia.
Piaccia o no, il Movimento 5 Stelle è la risposta, per una grande fetta di italiani. Una risposta che si fatica ad analizzare e capire: per pregiudizi, spesso, ma anche per l’autentica difficoltà di spiegare la complessità di un fenomeno nato e cresciuto fuori dai binari tradizionali della politica, dei suoi luoghi e linguaggi. A rendere problematica l’osservazione "scientifica" del M5s c’è anche la sua natura disorganica, "liquida", destrutturata. E le sue aporie: in filosofia indicano «la difficoltà o incertezza che incontra il ragionamento di fronte a due argomenti opposti entrambi possibili». Non solo incoerenze o contraddizioni, dunque, ma parti costitutive del Movimento proprio in quanto aporie, dialettica. È con questa chiave interpretativa che l’Espresso propone una Critica della Ragion Grillina.
Non sono-sono «Il Movimento 5 Stelle è una non-associazione...», recita l’articolo 1 del Non-statuto. «Non è un partito politico, né si intende che lo diventi in futuro», si afferma all’articolo 4. «Non è previsto il versamento di alcuna quota, non si prevedono formalità maggiori per registrarsi rispetto all’adesione a un normale sito internet». E nella proposta di legge elettorale di M5S c’è la preferenza negativa, con cui cancellare i candidati sgraditi: sbarrare il nome di chi "non" piace. È il nocciolo duro dell’identità 5 Stelle: il Non. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe...», scriveva il poeta genovese (Eugenio Montale, non Beppe Grillo).
O forse tra gli ispiratori inconsapevoli c’è il meno ricordato James Matthew Barrie, inventore della favola di Peter Pan e la sua Isola-che-non-c’è: «Le stelle, per quanto meravigliose, non possono in alcun modo immischiarsi nelle faccende umane, ma devono limitarsi a guardare in eterno. È una punizione che si è abbattuta su di loro così tanto tempo fa che nessuna stella ne ricorda il motivo». È questo l’incantesimo che tiene incatenate le 5 Stelle quando incontrano l’età adulta della politica: il governare. Trasformare il non in una scelta: un no oppure un sì.
Rifuggendo dalla tentazione di affidare la scelta a qualcun altro: le regole, la legge, la magistratura, l’Anac di Raffaele Cantone, il Consiglio di Stato, la Rete, i cittadini. Alla Rete è stata consegnata nel 2013, e poi nel 2015, la scelta dei candidati al Quirinale. Prima del voto romano, Virginia Raggi dichiarò di voler chiedere ai cittadini l’indicazione di un nome cui dedicare una via, lei non si assumeva la responsabilità di farlo. E anche di pensare a un referendum popolare per decidere se mantenere la candidatura di Roma alle Olimpiadi. Poi, ha deciso lei: ha detto no. Che differisce dal "non" appena in una lettera, ma per descrivere l’identità, dire chi sei, vale come l’addio all’adolescenza, il difficile passaggio alla maturità. Per i grillini il 2016 è questo: l’addio all’Isola che non c’è.
Democrazia diretta-delega Referendum propositivo senza quorum, obbligo di discutere in Parlamento le leggi di iniziativa popolare, elezione diretta del candidato che deve essere residente nel collegio dove si presenta, abolizione del voto segreto, introduzione del vincolo di mandato. Il programma delle origini di Gianroberto Casaleggio predicava la necessità di«rivedere l’architettura costituzionale nel suo complesso in funzione della democrazia diretta». «Ogni collegio elettorale», aggiungeva il fondatore del Movimento, «dovrebbe essere in grado di sfiduciare e far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi». Il mandato imperativo, vietato dall’articolo 67 della Costituzione, di cui Grillo chiede l’abolizione. Per limitarne gli effetti, M5S ha più volte chiesto ai candidati di firmare un impegno a non violare le regole del Movimento, con tanto di multa da 150 mila euro per i trasgressori, per danno d’immagine. E prima del voto romano la Raggi dichiarò all’Espresso che si sarebbe dimessa se fosse arrivata la richiesta di Grillo. Eppure, dopo tre anni di presenza in Parlamento, anche M5S sconta la rivincita della decrepita, imperfetta ma pur sempre senza alternative (per ora) democrazia rappresentativa. Blindata, nella proposta di legge elettorale del Movimento, dal ritorno della proporzionale e delle preferenze. Che nella Prima Repubblica significavano il massimo della delega degli elettori. E il minimo della responsabilità degli eletti.
Purezza-contaminazione «In M5S c’è un prima e un dopo. Ci sono quelli arrivati prima del 2012, cioè la vittoria di Parma: io, Carla Ruocco, Paola Taverna e Roberto Fico. E quelli che sono arrivati dopo. Quell’anno è stato un po’ spartiacque. Chi è arrivato dopo spesso ha fatto prevalere la comunicazione alla sostanza». Così parlò Roberta Lombardi, la deputata romana che si propone in queste settimane come la custode della purezza della stirpe, della «limpieza de sangre», come gli inquisitori spagnoli del XV secolo.
Ossessione comune ai rivoluzionari di professione e ai fondatori di religioni. Gli apostoli Pietro e Paolo si scontrarono nella Chiesa delle origini: battezzare solo gli ebrei o anche i gentili? Più mondano il dilemma del Pci all’alba della Repubblica - restare il partito uscito dalla clandestinità o allargare la base - sciolto da Togliatti con un tratto di penna verde: l’amnistia per i fascisti significava sdoganare il partito legato all’Urss e garantirsi solide radici nella nascente democrazia italiana. Negli ultimi mesi il più voglioso di ripercorrere inconsapevolmente la strategia di Togliatti, quella del discorso ai ceti medi di Reggio Emilia (1946), è sembrato il candidato premier in pectore Luigi Di Maio: a pranzo con gli esperti internazionali dell’Ispi, accanto al presidente della Trilateral italiana, su un barcone sul Tevere per la festa dei trent’anni, in posa su una Mini d’epoca per "Vanity Fair", accanto alla nota famiglia dei venditori ambulanti Tredicine. Tra lobby e star-system. Dalla Trilateral a Tredicine: strategie di accreditamento, legittimazione. Contaminazione. Contagio. Gli elettori li hanno preceduti: difficile restare duri e puri con milioni di voti.
Movimento liquido-partito leninista «La massa aperta esiste fintanto che cresce: la disgregazione subentra non appena cessa di crescere. La massa chiusa invece rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata», scriveva Elias Canetti in "Massa e potere". L’organizzazione di M5S in apparenza supera questa distinzione tipica del ‘900 della politica ideologica totalizzante, in realtà ne segue la stessa traiettoria. Il Movimento delle origini è come un fiume che accoglie tutti: non si pone il problema del blocco sociale di riferimento, come fa la sinistra in crisi, dà risposte e senso di appartenenza ai lavoratori liquidi della Gig economy, precari e sottopagati, ma anche al ceto medio impoverito e incazzato, in rivolta verso le forme di rappresentanza tradizionale, partiti, sindacati, associazioni, contro cui Grillo lancia i suoi strali nel 2012-2013. Con la crescita elettorale M5S ha il problema opposto: selezionare gli ingressi per permettere all’organizzazione di restare nel tempo, durare. Le espulsioni, le radiazioni, gli addii. Il Movimento che era liquido si consolida, si solidifica, fino a pietrificarsi. E ad assumere le sembianze di una nuova nomenklatura, di tipo leninista. Con i suoi apparatcik sul palco.
Playlist-ideologia Il programma del M5S è un pdf in modalità playlist: pragmaticamente lontano cioè da ogni sistematizzazione organica, volutamente agli antipodi rispetto ai tomi dei vecchi partiti che includevano tutto e non portavano a niente. Tra i temi selezionati, alcuni sono più approfonditi (es: energia, informazione), altri sono affrontati in modo più generico (es: economia), altri ancora ignorati (es: diritti civili, immigrazione). Del resto il M5S nasce su battaglie verticali - ambientali, legalitarie o anticasta - e non da un’ideologia con pretese onnicomprensive. Perfettamente coerente con la contemporaneità liquida e post-sistematica, si direbbe. Ma proprio perché liquida, poi la realtà si infiltra dappertutto e propone questioni che non rientrano nel programma e che dividono la base così come i parlamentari (dallo ius soli alle unioni civili - e infinite altre). Come uscirne? La risposta, per il M5S, sta nella piattaforma Rousseau, con le sue proposte di legge su centinaia di temi, tutte da sottoporre al voto degli iscritti. «Una rivoluzione mondiale», secondo il responsabile della funzione Lex Iscritti Danilo Toninelli, deputato del movimento. Meno enfaticamente, un grande contenitore con l’ambizione di rappresentare (democraticamente) la sintesi tra solido e liquido, tra ideologia e playlist, tra strutturato e destrutturato.
Regole-arbitrio Sono in corso e dureranno fino al 26 ottobre le votazioni on line con cui gli iscritti al Movimento decideranno se e quali modifiche apportare al "Non Statuto" e al "Regolamento" del M5S. Lo scopo è provare a superare, almeno un po’, un’antinomia storica del Movimento: quella tra la mistica della legalità (come obiettivo etico-politico) e una liquidità normativa interna che porta con sé ampi margini di ambiguità e imposizioni arbitrarie dall’alto, con in più la variabile della spersonalizzazione-deresponsabilizzazione costituita dal cosiddetto "staff" (anonimo) che si autoattribuisce il diritto di chiedere documentazione e di «avviare istruttorie» (caso Pizzarotti). All’origine di questa contraddizione tra obiettivo politico e pratiche interne c’è l’origine del M5S come rete molecolare di meetup che rigetta ogni burocrazia organigrammatica (vista come rendita di posizione e di potere tipica dei partiti).
L’incontro con la complessità della politica porta ora a moderare questo rifiuto: ad esempio a «indicare in modo più dettagliato i comportamenti sanzionabili (degli iscritti) attribuendo la decisione ad un organo terzo composto da portavoce e lasciando a Beppe Grillo le sole facoltà di annullare le sanzioni e di sottoporre la decisione ad una votazione on line degli iscritti». Per ulteriore paradosso, a richiedere una definizione meno arbitraria delle regole sulle espulsioni era proprio Pizzarotti, prima di lasciare il M5S.
Uno vale uno-Capi L’antinomia precedente è intrecciata con quella (altrettanto congenita e storica) tra l’obiettivo della democrazia assoluta e l’esigenza-esistenza di gerarchie, di capi. Una questione persistente nel tempo e altalenante nei tentativi di soluzione: "nessun capo, decidono tutto gli iscritti", Grillo capo politico, Grillo e Casaleggio insieme "garanti", Direttorio nazionale, Direttorio locale, staff, Grillo di nuovo capo politico, ruoli di peso più o meno formalizzati o informali ma evidenti (come Roberta Lombardi, che in teoria è un semplice deputato ma conta più di altri). Di nuovo: è la complessità del reale che fa emergere catene di comando sul campo, che il "capo politico" Grillo talvolta alimenta, talvolta tollera, talvolta ignora (e talvolta cancella con una frase sul blog o in un comizio). Come nella voce sopra, all’origine c’è il rifiuto drastico dei vecchi e rigidi organigrammi di partito: comitato centrale, direzione nazionale, segreteria etc. Ma se su questa pars detruens nessuno ha dubbi, manca ancora la formula che impedisca all’utopia "uno vale uno" di rovesciarsi in una distopia di poteri di fatto, in equilibrio o squilibrio tra loro secondo capricciosi e impermanenti rapporti di forza.
Trasparenza-retroscena Il primo incontro, chi può dimenticarlo?, all’hotel Saint John a San Giovanni a Roma. Neo-parlamentari che con l’iPad fotografavano i giornalisti, sublime rovesciamento dei ruoli, cronisti infiltrati che si fingevano deputati (i neo-eletti non si conoscevano tra loro), la promessa di mettere tutto in streaming per uccidere gli odiati retroscena dei giornali. Missione riuscita, con Pier Luigi Bersani, Enrico Letta e anche Matteo Renzi: epico lo scontro nel 2014 tra il premier incaricato e Grillo piombato a Roma per insultarlo on line, per tracciare una linea di confine, di qua o di là. «La trasparenza diventerà in futuro obbligatoria per qualunque governo o organizzazione. Non è corretto che qualcuno decida per i cittadini in base a logiche imperscrutabili e senza renderne conto», teorizzava Casaleggio. Tre anni dopo, si è vista la prima cittadina di Roma seduta sul tetto del Campidoglio per sfuggire a occhi e orecchie indiscrete. E i retroscenisti del Palazzo - disoccupati quando devono occuparsi di Pd o di Forza Italia, che noia - hanno ritrovato linfa vitale tra le correnti del M5S.
Riecco gli squali e i tonni, così il decano dei giornalisti parlamentari Guido Quaranta catalogava i colleghi del Transatlantico, in branco sulle prede. Solo che ieri erano i potenti boss dc, oggi gli spauriti aspiranti capicorrente grillini. Risorge il minzolinismo (da Augusto Minzolini: ieri giornalista-squalo, oggi nell’acquario come senatore berlusconiano) con i suoi stili narrativi: l’ira del capo sui seguaci, la rissosità tra i gerarchi, le veline, i virgolettati anonimi. La sindaca Raggi e il suo portavoce si fanno intercettare da un reporter a tavola, come accadde ai colonnelli di An che tramavano contro Gianfranco Fini. Solo che i protagonisti non sembrano in grado di tenere la scena, e neppure il retroscena. E così, tra il tripudio di facce, faccette, chi-sta-con-chi incorniciate nelle infografiche dei quotidiani e gli scoop sull’ultimo nominato in Campidoglio, manco fosse il Watergate, viene il dubbio che, alla fine, Grillo stia riuscendo nel suo intento. Uccidere quel che resta del racconto della politica con una dose sempre più massiccia di sconfortanti banalità.
Cambiamento-conservazione «Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno!», disse Grillo nel 2013. «Una rivoluzione democratica, non violenta, che sradica i poteri, che rovescia le piramidi». Scardinare le liturgie della vecchia politica: il programma di un cambiamento radicale, l’indicazione della terra promessa. Già qualche mese dopo l’ingresso a Montecitorio e Palazzo Madama, però, il proposito si era capovolto. Colpa della rottamazione di Renzi, un brand direttamente concorrenziale con M5S negli scaffali del supermarket politico, che pesca nello stesso mare dell’indignazione dei cittadini verso la casta del Palazzo. Renzi occupa il ruolo del riformatore costituzionale, il premier che vuole cancellare il Senato e il Cnel. E i 5 Stelle, di conseguenza, salgono sui tetti per difendere la Costituzione, si tramutano nelle sentinelle della Carta del 1947, dalla parte di Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Salvatore Settis, nonostante siano rappresentanti di un elettorato giovane e giovanissimo. Dall’attacco alla difesa, anche nelle città. Un solo messaggio per dipendenti comunali, vigili, autisti dell’autobus, l’esercito degli assunti nelle municipalizzate: nessuno sarà tagliato. Rassicurante e moderato. L’eterno gattopardismo o il suo contrario: non cambiare nulla per avere la forza di cambiare tutto?
Militanza-competenza Al debutto, al comune di Parma, il sindaco neo-eletto Pizzarotti chiese ai cittadini di inviare i loro curriculum per partecipare alla giunta da assessori. E impiegò due mesi per mettere a posto la squadra. Quattro anni più tardi Virginia Raggi non ha fatto pubblica richiesta di competenze, in compenso la ricerca di un nome all’altezza del delicato assessorato al Bilancio è durata ancora di più. Il mix delicato tra gli incarichi ai militanti della prima ora e quelli distribuiti ai tecnici svela un’altra metamorfosi del Movimento. Quando M5S ancora non esisteva e Grillo girava l’Italia con i meetup era naturale per lui far salire sul palco gli studiosi di nanoparticelle Stefano Montanari e Antonietta Gatti, il teorico della decrescita felice Maurizio Pallante, il consulente economico Beppe Scienza, la sindaca di Montebelluna Laura Puppato del Pd... Nel corso degli anni il Movimento ha incontrato altri esterni, l’economista no-euro Alberto Bagnai, il filosofo Paolo Becchi.
Più cresceva la nuova nomenclatura informale del Movimento, più le presenze degli esperti venivano meno. Nelle giunte del 2016, a Roma e a Torino, l’esperimento è sembrato tornare di moda, con Paolo Berdini all’urbanistica a Roma o Francesca Leon alla cultura a Torino. Compagni di strada, intellettuali, professori cui non viene chiesto di giurare fedeltà a Grillo e Casaleggio, ma accettano di fare una parte del cammino, come gli indipendenti di sinistra con il Pci. Fino a scivolare, sotto il Campidoglio, nell’esterna Paola Muraro, assessore all’Ambiente sotto inchiesta. O nel capo di gabinetto Carla Raineri, dimissionaria dopo la polemica sul suo compenso («le competenze si pagano», la difese la sindaca), insieme all’assessore al Bilancio Marcello Minenna, sostituito dopo lungo travaglio da Andrea Mazzillo. Il militante: che però era stato del Pd.
Cittadini-gente Per Grillo M5S è «il cittadino che si fa Stato ed entra in Parlamento». Lo disse nel comizio finale di piazza San Giovanni il 22 febbraio 2013, alla vigilia del trionfo elettorale, forse il suo intervento più pensato e programmatico. «Pensavamo di essere soli e invece eravamo moltitudine. Ci siamo finalmente riconosciuti uno nell’altro e abbiamo condiviso parole guerriere». Moltitudine, la parola cara a Toni Negri, Michael Hardt e i teorici del nuovo ordine globale, che sta a significare il singolo che si ritrova in una pluralità senza perdere la propria individualità. Cittadini, si fanno chiamare e si chiamano tra di loro gli eletti dei 5 Stelle, alla francese, il sogno di una cittadinanza nuova: consapevole, informata, responsabile. Una minoranza attiva, ma il grande consenso ricevuto nel 2013, otto milioni di voti trasversali per classi di età, aree geografiche, lavoratori autonomi e dipendenti, obbliga M5S alla necessità di trasformarsi rapidamente in lista pigliatutto, per rappresentare la massa di cui scriveva Elias Canetti sessant’anni fa, caratterizzata dalla «scontentezza per il numero limitato dei partecipanti, l’improvvisa voglia di attrarre, la determinazione appassionata di raggiungere tutti». Da portavoce dei cittadini a megafono della gente.
Media vi odio-Media vi amo Nessuna forza politica, nemmeno Forza Italia, ha mai avuto l’interesse verso la comunicazione e i media del M5S. Un movimento che nasce in un nuovo medium (Internet), da un fondatore che proviene da un altro medium (la tivù) al quale deve la sua notorietà pregressa ma anche il suo primo scontro politico (1986, l’anatema di Craxi e l’espulsione dalla Rai). E sono in tivù i primi "comizi" su temi civili (i monologhi di fine anno su Tele+, anni Novanta), è su un settimanale che Grillo scrive i suoi editoriali ("l’Internazionale", dal 2008 al 2014). Ne deriva, per il M5S, un’attenzione per i media al limite dell’ossessione: gli attacchi continui ai giornali, il rapporto conflittuale e altalenante con i talk show, fino alla rilevanza decisionale all’interno dello stesso M5s dei "responsabili della comunicazione", il cui ruolo sconfina spesso nella regia politica (ultimo caso, Rocco Casalino). «I giornali sono morti», ripete Grillo, poi però scrive al "Corriere della Sera" per spiegare il caso Roma (10 settembre scorso), così come già aveva fatto Casaleggio per spiegare il suo ruolo nel M5S, nella sua prima uscita pubblica (maggio 2012); e anche l’erede Davide affida al "Corriere" la sua prima intervista (giugno 2016). Quanta alla tivù, «è una merda» (Grillo dixit) però i parlamentari vengono sottoposti a training per bucare lo schermo. Incoerenze? Forse. O magari il segno di un rapporto intenso e quindi ricco di ambivalenze. Nemmeno così strano, per un partito nato in un’era in cui politica e comunicazione sono la stessa cosa.
Virus-antivirus «Abbiamo piazzato trenta virus in una trentina di comuni», scrive Grillo all’indomani dei suoi primi eletti negli enti locali (2009). E poi: «Il virus della conoscenza non si può fermare, Ognuno è un trasmettitore e un ricevitore» (2010); ancora: «Il M5S è un virus, non una poltrona (2012), «Siamo un virus inarrestabile» (dopo la vittoria a Livorno, 2014) «Chi si risveglia è un virus, questo virus non si ferma» (2015). La metafora è chiara: una contaminazione positiva, per uccidere il corpaccione della casta e del palazzo.
Con il tempo però il virus diventa anche altro: quello degli "infiltrati" nel M5s (i parlamentari fuoriusciti e/o espulsi) e quindi contamina il M5S stesso (Roberta Lombardi: «Raffaele Marra è il virus che ha infettato il Movimento»). Il partito di Grillo da soggetto virale a potenziale oggetto di virus, insomma, in contemporanea con il passaggio dalla pura protesta alle responsabilità istituzionali. Un’evoluzione che però non può essere risolta in modo troppo semplificatorio o fatalista: perché alla fine quello che conta è la risposta dell’organismo all’agente esterno. E finora gli agenti patogeni sembrano aver più rinforzato che indebolito il M5S.
Ridere-arrabbiarsi Henri Bergson insegna che il riso rinsalda le relazioni sociali tra coloro che ridono, definendo così la propria differenza rispetto agli oggetti del riso. Il comico Grillo è sempre stato consapevole di questa dinamica e gli inizi del Movimento stanno in una sorta di inedito "blocco sociale": coloro che ridono con lui - Grillo - contro gli avversari verso cui è indirizzata la risata (Berlusconi-Psiconano, Bersani-Gargamella, Morfeo-Napolitano etc). Con la sua comicità Grillo declina e trasfigura la rabbia: e, nelle intenzioni, ne impedisce le derive brutali, la fertilizza politicamente. Il meccanismo tuttavia è instabile e sempre a rischio: il "vaffanculo" del resto è per sua natura in bilico tra gioco satirico e aggressione violenta, tra la leggerezza della comicità e la cupezza della collera. Ed è questa che spesso prevale, soprattutto sui social network, dove ogni critica al Movimento è seguita da aggressioni verbali poco ludiche e molto lugubri. Il cui effetto è ovviamente quello di un boomerang. Lo capì anche Casaleggio senior, all’indomani della sconfitta elettorale del 2014: quando raccomandò «più sorrisi e meno livore» e costruì un video ironico con Beppe Grillo che prendeva un Maalox.
Rete-Alveare Per il M5S Internet è il tempio della democrazia dal basso, dove si propongono le leggi, si discutono e alla fine si votano (piattaforma Rousseau). È la democrazia più alta: non solo diretta, ma anche continua e in grado di autocorreggersi, come teorizzato dai "classici" della Rete e mostrato dal modello Wikipedia. Inoltre è il luogo della critica che stimola e aggrega la protesta-proposta dei cittadini. Il Web tuttavia è un Giano bifronte e, accanto all’agorà digitale, porta in pancia conseguenze negative secondo la stessa cultura del Movimento: la globalizzazione dei mercati che uccide il piccolo produttore locale, la concentrazione di ricchezze nelle mani di pochissimi "over the top", l’esternalizzazione del potere da parte di dinamiche e algoritmi non trasparenti e non controllabili dai cittadini.
In più, con l’avvento dei social, la Rete scatena quelle dinamiche sociopsicologiche che lo scrittore Vincenzo Latronico ha definito "mentalità dell’alveare": sospetti, accuse, minacce, congiure, allusioni, processi, bufale, insulti. Tutti rovesci della medaglia che lo stesso Casaleggio ha raccolto in un suo libro ("Insultatemi", 2013) dove racconta di aver «scoperto di essere un pericoloso massone, frequentatore del Bilderberg ed espressione dei "poteri forti": identità multiple, a me del tutto sconosciute». Insomma Internet è un’arma meravigliosa, ma a doppio taglio. Così il tecnoentusiasmo dei primordi viene affiancato da una riflessione più sfumata. O perfino dalla tecnopaura: come nel video postumo di Gianroberto Casaleggio, in cui la minaccia più seria per il futuro dell’umanità viene identificata in «un superorganismo che mescola Internet, intelligenza artificiale, Big Data». Si ama sempre Lawrence Lessig, certo: ma si inizia a temere che abbia ragione Evgenij Morozov.