Evoluzioni
La leader di Fratelli d’Italia sogna una nuova destra conservatrice, ma deve fare i conti con i colonnelli. Che non mollano
di Susanna Turco
L’apice della distanza siderale, ma anche dell’intruglio, tra il vecchio e il nuovo, si tocca con mano nell’attimo in cui Ignazio La Russa, parlando sul palco, davanti a oltre tremila persone, invece di chiamare la leader di Fratelli d’Italia «Giorgia», la chiama: «Sergia». Siamo a Milano, domenica primo maggio, Conferenza programmatica di FdI al Milano convention center, quasi ora di pranzo, gran finale dopo tre giorni di tavoli e dibattiti, di fronte a quelli che Fabio Rampelli chiama «i grattacieli storti» della ex Fiera. Il cofondatore di FdI chiarisce immediatamente: «Avevo in mente Sergio Ramelli e mi sono sbagliato, scusate, può capitare. Ho identificato Giorgia con lui», precisa dal palco, chiamando l’applauso in ricordo dello studente del Fronte della gioventù ucciso nel 1975 da un gruppo di militanti di Avanguardia operaia.
Un lapsus vero e proprio, che contiene simbolicamente moltissimi elementi, per capire i non detti sui cui si regge FdI.
Nella tre giorni organizzata dal partito di Giorgia Meloni, dove per la prima volta la leader lancia la sfida della premiership a Matteo Salvini («gli altri sono surfisti, i politici che cavalcano l’onda e si fanno dominare dagli eventi. Noi siamo i navigatori, quelli che studiano») spiegando che la battaglia per la vittoria elettorale la farà «comunque» con il centrodestra o senza; nella kermesse dove Fratelli d’Italia si presenta davvero come un partito pronto a governare («questo viaggio porterà le idee dei conservatori al governo della nazione»), una specie di Forza Italia in salsa destra ma non cartonata, una conferenza nella quale «indipendenza», «innovazione», «crescita» sono le piuttosto berlusconiane parole chiave, e gli uomini alla fine ci sono e i mezzi pure (l’evento costa «tra i 550 mila e 570 mila euro», valuta a spanne il responsabile organizzazione Giovanni Donzelli, per l’ufficialità si dovrà attendere il bilancio), in un passaggio che molti in sala e nei corridoi vivono e raccontano come un salto di specie da paragonare con la svolta di Fiuggi, a scorrere le immagini non viste dei giorni milanesi si rivela la coesistenza di due tribù, che si mescolano solo in parte, collaborano e si soffrono, ma non possono fare a meno gli uni degli altri.
C’è il partito che guarda all’Europa, ai conservatori, agli americani, e c’è l’altro. Il partito che La Russa si presta bene a esemplificare. «Sergia», chiama per sbaglio Giorgia Meloni, e dentro a quel Sergia c’è l’inesprimibile desiderio che lei rappresenti e possa essere identificata con qualcosa d’altro: gli anni Settanta, il Msi, la gioventù, un tempo che non c’è più e che però si può ancora toccare, volendo. «Giorgia si è caricata sulle spalle tutta la nostra storia e l’ha proiettata al futuro. Grazie», dice La Russa. Un processo che Meloni certo non rinnega, ma racconta in un modo tutto diverso: «Noi non vogliamo essere la riproposizione della storia del passato. L’abbiamo attraversata con orgoglio, ma andiamo avanti, non siamo in nessuna delle vostre etichette», dice lei. Il 29 aprile ha partecipato all’ultima commemorazione di Sergio Ramelli, sì, ma è nata due anni dopo la sua morte.
La destra che non può vincere, ma governa: quella di An cui il Cavaliere se necessario pagava i conti, quella di Ignazio La Russa, ministro con Berlusconi negli anni del Popolo delle libertà. La destra che può vincere (nei sondaggi, di sicuro) ma per adesso non governa: quella di Giorgia Meloni. Che si è fatta «partito conservatore», vuole il ministero del Mare e chiama il reddito di cittadinanza «paghetta di Stato», vuol detassare il lavoro fino a 26 anni e introdurre il liceo del «made in Italy», chiama la riforma del catasto «patrimoniale della sinistra» e l’utero in affitto «un orrore», cita Eugenia Roccella, si definisce «forza convintamente produttivista» e vuole «un sistema unico di ammortizzatori sociali». Ma alla fine della giornata deve fare i conti con gli Ignazio La Russa, quando non con i delegati napoletani che vanno a cena Da Oscar, ristorante milanese noto anche per i suoi addobbi e le effigi fasciste.
È una lotta sottotraccia, per non perdere posizioni e per guadagnarle, per non scendere in credibilità e per restare sulla scena. Anche plasticamente: alla Conferenza programmatica i due gruppi umani non sono seduti quasi mai contemporaneamente nelle prime file; se ci sono gli uni non ci sono gli altri, e viceversa. Si contendono gli spazi, i momenti topici.
Nella tre giorni La Russa è l’unico oltre a Meloni a parlare dal palco più di una volta. Il primo giorno sale a commemorare donna Assunta Almirante, appena scomparsa (al funerale la leader di FdI ha scosso la testa quando le si è proposto di stare vicino a La Russa, che si è poi sistemato nei pressi di Francesco Storace; è andata via prima della cerimonia del “presente” col saluto fascista).
Il secondo giorno La Russa rinuncia al suo intervento, l’unico che era in scaletta: i lavori si prolungano, dovrebbe parlare troppo tardi; chiede (e ottiene) allora di salire sul palco nella giornata finale, prima delle conclusioni. Vale a dire in una delle posizioni più nobili: non a caso è riservata a ben altro genere di personaggio, il vice di Ecr Raffaele Fitto, regista della collocazione europea di Fdi e tassello importantissimo della costruzione del nuovo partito. Spostandosi, La Russa lascia orfano Adolfo Urso: l’intervento del presidente del Copasir resta confinato al sabato sera, addirittura per ultimo; lui si vendica parlando per quaranta minuti di indipendenza energetica, spazio, africa, rigassificatori flottanti e persino di Enrico Mattei, la platea in ostaggio fino alle nove di sera («l’ho fatto apposta», confessa poi pimpante, proprio a Fitto).
Non è solo questione di posti, ma di linea politica. La Russa è colui che sbarra la porta a Matteo Salvini, quando il leader leghista vorrebbe passare per un saluto: meglio di no, dichiara il vicepresidente del Senato. «Ma chi glielo ha detto, ma perché? La Russa farebbe meglio a starsi zitto», ruggisce Guido Crosetto sulle scale mobili la mattina dopo, quando glielo riferiscono. Confermano più voci raccolte dentro Fratelli d’Italia: «Certo che è un problema: più parla, più ci porta indietro, verso la storia missina, mentre Giorgia vuole andare avanti». La Russa intanto sfreccia a fianco di Daniela Santanché in completo turchese, tirandosi dietro i giornalisti: in sala Isabella Rauti sta illustrando il programma relativo a la donna e la famiglia che sono «sotto attacco» ma anche «l’unico argine alla deriva fluida» della sinistra (nota a margine: in Fdi il Male e il «fluido» si identificano).
Tra i Fratelli d’Italia è proprio Crosetto a spopolare: l’altro co-fondatore non può fare un passo senza che gli si chieda un selfie o gli si predìca un prossimo ingresso al governo. Una specie di Lady Gaga dei Fratelli d’Italia: e del resto è l’unico a intervenire con il microfonino attaccato all’orecchio, tipo cantante-performer, il solo autorizzato a un intervento politico a tutto tondo. Ecco l’altra tribù dei Fratelli d’Italia. Ben inserita nei poteri forti. Dialogante. Non soccombente. Come lo è Raffaele Fitto: placido, sistematico, il co-presidente del gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) non passa mai un minuto senza fare rete con qualcuno. Poche parole in pubblico, molte sotto il palco. Senza riflettori addosso, ma pure lui con una fila di questuanti, è Francesco Giubilei, indicato come una delle figure chiave del melonismo. Appena trentenne, editore, fondatore del think tank o «hub culturale» Nazione Futura (edita anche un trimestrale), capace di sfornare (non si sa come) praticamente un libro all’anno, da sempre al lavoro sui conservatori e sulla destra istituzionale: unico partner italiano alla National Conservatism Conference, è stato osservatore ufficiale per le elezioni ungheresi, sta collaborando con i repubblicani americani per l’evento europeo del Cpac 18-20 maggio a Budapest (è previsto, manco a dirlo, un intervento di Meloni). La sua attività si incrocia in più di un punto con quella di Fitto: poco più di un mese fa, a Bari, hanno inaugurato la scuola di formazione politica dell’Ecr, che è organizzata in collaborazione con la Fondazione Tatarella, organismo di cui proprio Giubilei è presidente (dal 2017, dopo che per quindici anni a guidarla era stato il parlamentare di An Nicola Buccico).
«Se vuoi durare nel corso del tempo devi avere una tua base culturale, valoriale, una tua rete internazionale, un network», spiega Giubilei. Una rete Meloni se l’è creata, e qui si vede. Non solo perché riesce ad attrarre ospiti alcuni grandi nomi del fu centrodestra di governo, come Marcello Pera e Giulio Tremonti. Alla Conferenza programmatica arriva anche il saluto del neo premier ceco, Petr Fiala, e del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki che definisce FdI come «un raggio di speranza» per l’Italia e l’europa. Meloniani che ce l’hanno fatta, in qualche modo. La platea applaude – ci sono anche tanti delusi da Matteo Salvini, persino quadri o ex parlamentari che nella Lega hanno passato una vita - mentre i ventilatori diffondono un’aria di borotalco che è inedita quanto questa destra che la leader di Fdi definisce «vincente» e che in effetti, da qui, come in una vertigine, lo sembra.