Politica
24 ottobre, 2025L’esecutivo a guida Fdi è il terzo nella storia della Repubblica per longevità della legislatura, alle spalle soltanto dei governi Berlusconi II e IV. Nonostante i proclami trionfali della premier, però, a due anni dalle prossime elezioni sono solo 22 le promesse mantenute sulle 100 previste dal programma di coalizione
Una pillola video di un minuto pubblicata sui canali social della presidente del Consiglio Giorgia Meloni riassume, dal suo punto di vista, i tre anni di governo appena trascorsi. Musica epica ad accompagnare dati e rivendicazioni snocciolati su varie tematiche, quali lavoro, sicurezza, pace fiscale, sanità, immigrazione, export e investimenti all’estero. Il tutto suggellato da una chiosa che cita una massima di San Francesco, “il più italiano dei santi”, sui combattimenti difficili affidati “solo a chi mostra un coraggio esemplare”. E così, l'inquilina di Palazzo Chigi, che da 285 giorni non tiene una conferenza stampa, avoca a sé presunti successi e traguardi raggiunti, senza lasciare spazio a propositi (o domande) sui possibili miglioramenti.
Eppure, a ben vedere, l’esecutivo in carica dal 22 ottobre 2022 è stato sinora meno trionfante di come si racconta. È in ritardo, infatti, sulla spesa delle risorse Pnrr e nell’adeguamento ai parametri europei sugli investimenti a sostegno della ricerca. È in ritardo per quanto attiene alla sanità, visto che l’abbattimento delle liste d’attesa assicurato in campagna elettorale risulta ancora non pervenuto. E visto che la spesa in rapporto al Pil ad essa destinata – calata al 6,3 per cento nel 2024 – crescerà soltanto di 0,1 punti entro fine anno.
Sui progetti di riforme costituzionali, poi, tiene banco quello relativo alla giustizia, con la separazione delle carriere dei magistrati, mentre è stato accantonato il disegno che puntava a eleggere direttamente il presidente della Repubblica (presidenzialismo). In compenso, l’esecutivo ha ripiegato sull’aspirazione all'elezione diretta del presidente del Consiglio (premierato).
PENSIONI
Altra inversione a U è quella sul fronte pensioni, a cominciare dalla presa d’atto della difficoltà di modificare la legge Fornero, nonostante i proclami degli anni precedenti. Nel 2017, Meloni disse di essersi pentita di averla votata, ammettendo però che abrogarla del tutto fosse impossibile, mentre Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio e segretario della Lega, ne ha ribadito più volte il proposito di cancellazione. Entrambi hanno assunto un impegno con gli elettori che non hanno saputo fin qui onorare.
La nuova legge di Bilancio è tutt'altro che rosea in materia di previdenza sociale. Dal Documento programmatico di bilancio si evince infatti un cambio di rotta rispetto al proposito di interrompere l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Se tutto restasse com’è, e se le ultime previsioni Istat si riveleranno corrette, nel 2050 si andrà in pensione a 69 anni.
Contrariamente a quella del 2025, la manovra del 2026 non prevede inoltre né la proroga di Opzione donna, né il mantenimento di Quota 103, cancellata per mancanza di risorse. La prima misura consentiva alle lavoratrici dipendenti o autonome di andare in pensione al raggiungimento di 61 anni di età e 35 di contributi, anche se sottoposta a requisiti sempre più stringenti con le ultime due leggi di Bilancio (aumento soglia d’età, invalidità al 74 per cento e appartenenza alle categorie di caregiver, dipendenti o licenziate da imprese in crisi).
Quota 103, invece, consentiva di assegnare pensioni – previo ricalcolo del contributivo – a 62 anni e 41 di contributi, e non sarà sostituita dal cavallo di battaglia di Salvini, Quota 41, che puntava a erogare pensioni al raggiungimento di 41 anni di contributi versati, a prescindere dall’età.
E nemmeno le pensioni minime saranno come prospettate in campagna elettorale. Se al riguardo Silvio Berlusconi parlava, nel 2022, di mille euro, oggi la realtà è ben lontana da quella promessa. Nella conferenza stampa di presentazione della nuova manovra, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha annunciato infatti un aumento di soli 20 euro mensili.
TASSE
A cominciare dalla tassazione degli extraprofitti delle banche, fieramente sbandierata in precedenza da una parte del governo e divenuta oggi, nei fatti, una sorta di “contributo facoltativo” con l’ultima legge di Bilancio, il tema fiscale è un altro terreno scivoloso.
Della flat tax millantata a più riprese da Berlusconi e Salvini, ad esempio, neanche l’ombra. Nei primi cento giorni di legislatura – si diceva – si sarebbe dovuta attestare sul 23 per cento per poi scendere al 15 per cento per tutti i redditi, ma dopo oltre mille giorni di governo appare piuttosto improbabile arrivare ad una simile modalità. Sorte analoga tocca al proposito avanzato da Fdi e Lega di portare a 100 mila euro di fatturato la flat tax del 15 per cento per i lavoratori autonomi, cassata nella Manovra 2026.
Le accise sul carburante che Meloni e Salvini tenevano particolarmente ad eliminare sono state sì ridotte di 4 centesimi al litro per la benzina, ma compensando con un rincaro speculare del diesel.
La pressione fiscale – cioè il rapporto entrate/Pil, utile in parte a capire se un governo ha aumentato le tasse – poi, è aumentata progressivamente. Con il 42,5 per cento registrato per il 2024, la crescita è stata di 1,2 punti rispetto all’anno precedente, e secondo le stime dovrebbe arrivare a circa il 43 per cento entro il 2025.
Da segnalare qui, invece, una promessa mantenuta: quella dei condoni fiscali, con la quinta rottamazione delle cartelle esattoriali già pronta.
SOSTEGNO AI REDDITI E ALLE FAMIGLIE
La destra di governo non ha saputo tenere fede adeguatamente neanche all’obiettivo di sostenere le persone a basso reddito. Con l’inflazione che si attestava, a marzo 2025, al 10 per cento, l’Istat ha rilevato che, nel 2024, quasi un italiano su quattro (23,1 per cento) era a rischio povertà o esclusione sociale. Dato, anche questo, in crescita rispetto all’anno prima.
In termini di politiche per la famiglia, argomento caro al partito di Meloni, mancano, all’appello delle promesse mantenute, sia una coerenza di fondo per l’Iva sui prodotti per la prima infanzia (ridotta inizialmente, ma poi rialzata), sia il quoziente familiare, ossia il sistema ideato per tassare i nuclei familiari proporzionalmente al numero di figli.
Il quoziente è stato infatti introdotto soltanto in versione fac-simile, circumnavigandolo e riprendendolo attraverso misure alternative quali detrazioni in favore di chi ha più figli e l’Assegno unico universale. Quest’ultimo intervento, ad onor del vero, firmato governo Draghi.
MIGRAZIONI
Altro tema caldo della destra sono infine, notoriamente, le migrazioni. Da osservare come, al di là dei numeri decantati, la gestione dei flussi migratori sia stata esternalizzata con i centri costruiti in Albania, i quali costeranno circa 654 milioni di euro in 5 anni e che finora hanno visto transitare solo poche decine di persone, finendo peraltro per essere presto snaturati. Da centri d’accoglienza rapida per i richiedenti asilo dai cosiddetti “Paesi di origine sicura”, si sono trasformati in veri e propri centri di rimpatrio scarsamente efficaci, anche a seguito di alcune sentenze che hanno inasprito lo scontro con la magistratura. Mentre il blocco navale è rimasto uno slogan da campagna elettorale.
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