Politica
30 luglio, 2025Resta solo Ursula (per mancanza di alternative). Il centrodestra teme la batosta nei sondaggi
A saltare, a settembre, non sarà Ursula von der Leyen. A saltare potrebbe essere l’accordo con gli Stati Uniti sui dazi al 15%. Troppo fragile, troppo divisivo, troppo scoperto rispetto a un’Europa che ormai si muove in ordine sparso. È questo, raccontano fonti qualificate della maggioranza e di Bruxelles, il verdetto non ufficiale maturato nelle ultime ore tra Palazzo Chigi e il cuore delle istituzioni europee.
Perché se la presidente della Commissione europea ha ceduto a Donald Trump, come ammettono persino i più prudenti dietro le porte chiuse dei palazzi, a mancare del tutto è un’alternativa politica credibile. La sottomissione di Ursula — dicono testualmente alcuni parlamentari italiani di area governativa — ha fatto imbestialire Macron e Orbán allo stesso modo, unendo l’inconciliabile. E perfino in Germania, dove il cancelliere Friedrich Merz (stesso partito della von der Leyen) prova a difendere l’intesa dicendo che «poteva andare peggio», le imprese sono in rivolta. L’Spd minaccia la crisi di governo, col fantasma delle elezioni e dell’AfD al 40% che agita le cancellerie di mezza Europa.
A Roma la situazione non è meno complicata. Giorgia Meloni ostenta calma, ma dietro le quinte il nervosismo è palpabile, specie nella Lega. Salvini e i suoi attaccano von der Leyen senza toccare Trump: il bersaglio vero sono il Green Deal e le politiche ambientali europee. Forza Italia, dal canto suo, vive l’imbarazzo massimo: Antonio Tajani sa bene quanto l’intesa sia penalizzante per le imprese italiane, ma non può dirlo apertamente. Anche l'opposizione va all'attacco: "Quello che e' stato raggiunto non è un buon accordo, ma è una resa a Trump e questa non è una buona notizia per l'Europa" spiega Elly Schlein, segretario del Pd, in un'intervista con Tommaso Labate nell'ambito della sezione politica del Magna Graecia Film Festivala, organizzato dal fondatore-direttore Gianvito Casadonte. "Ma a questo - ha proseguito Schlein - ci siamo arrivati per le divisioni dell'Europa, per il ruolo dei cavalli di Troia nazionalisti amici di Trump che hanno avuto una linea accondiscendente a Trump. E tra questi governi c'è anche il nostro, che all'inizio ha minimizzato sui dazi. Abbiamo una premier che ha detto che se si fossero fermati al 10% - ha aggiunto - non sarebbe stato drammatico Invece abbiamo un accordo che prevede dazi generalizzati per l'Italia e l'Europa al 15%, senza alcuna reciprocità. L'impatto è drammatico. Solo con una vera integrazione dell'Europa - ha concluso Schlein - possiamo salvarci".
La domanda sul dopo "Ursula", nelle capitali europee , ha preso a circolare nelle ultime ore. Ma la risposta è semplice: non c’è un sostituto. Manfred Weber, il presidente del Ppe, è considerato troppo sbilanciato a destra. Socialdemocratici e Verdi non lo voterebbero mai. Mario Draghi? Non solo non avrebbe il sostegno dell’Italia, ma neppure quello di altri governi europei che temono di trovarsi un presidente troppo forte. E le elezioni anticipate, semplicemente, non sono previste dai Trattati: il Parlamento europeo eletto da poco resta in carica cinque anni.
Ecco perché la scommessa che gira da qualche giorno è crudele ma chiara: Ursula resterà, delegittimata, con il Parlamento che probabilmente boccerà l’intesa sui dazi e il Consiglio che proverà a commissariarla.
Il rischio, però è che a quel punto si aprirà una vera e propria guerra commerciale con gli Stati Uniti. La Francia, e non solo, spinge già per il "bazooka" contro i giganti del web made in Usa. L’Italia e la Germania cercano di evitare lo scontro frontale, ma sanno benissimo che l’intesa scozzese con Trump «non reggerà». La previsione più diffusa — sempre a microfoni spenti — è che “salterà tutto”: o ci sarà un nuovo negoziato in extremis o una stagione di dazi e ritorsioni.
Intanto, a Roma, il centrodestra deve fare i conti con i sondaggi in arrivo che si prospettano negativi: l'accordo sui dazi con Trump rischia di essere devastante per l'alleanza. La sensazione prevalente nei palazzi romani e a Bruxelles è che la crisi non sia solo dell’accordo o della presidente della Commissione: è dell’idea stessa di un’Europa capace di negoziare con una voce sola. E che il rischio vero, al di là dei dazi, sia la corsa dei singoli Stati a trattare direttamente con Washington, scavalcando Bruxelles. Un passaggio che sarebbe la fine — o l’inizio della fine — del sogno europeo così come lo conosciamo.
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