Sempre più persone, nel mondo, si permettono oggi beni e servizi che normalmente non potrebbero acquistare. Grazie alla sharing economy , un modello vincente dal punto di vista etico, sociale e culturale. In continua crescita, come spiega lo studioso Arun Sundararajan

Ogni giorno, quasi 500mila persone usano la piattaforma digitale AirBnb per dare ospitalità a 300 mila persone in tutto il mondo: un servizio alberghiero informale dove domanda e offerta si incontrano in rete. Ogni giorno decine di migliaia di proprietari di auto scarrozzano in giro per le città clienti incontrati attraverso le piattaforme Uber, Lyft e Sidecars. Lo stesso sistema funziona a Parigi, in Francia, e a Monaco, in Germania, per gli spostamenti fuori città attraverso BlaBlaCar e CarPooling.

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A Milano fa i primi passi attraverso varie piattaforme di start-up locali l’idea di Collaborando, veicolo per offrire e chiedere lavoro in una stagione di crisi e di mercato irrigidito da un dibattito troppo ideologico e poco attento alle necessità reali dei cittadini e ai diritti di chi lavora. Tutto questo passa sotto il nome di “sharing economy”. E il guru che la studia e ne analizza pregi, difetti ed effetti odierni e nel futuro prossimo venturo si chiama Arun Sundararajan. “L’Espresso” lo ha incontrato nel suo ufficio all’ottavo piano della Leonard Stern School of Business della New York University, dove insegna Information, Operations and Management Sciences.

Professor Sundararajan, perché lei scrive che la sharing economy «è uno strumento importante per migliorare gli standard di vita» di uomini e donne nel mondo?
«La ragione fondamentale sta nel permettere a larghe fasce di reddito medio basso di accedere a servizi di cui altrimenti non potrebbe usufruire. Esiste, per esempio, una barriera finanziaria all’acquisto e alla gestione di un’automobile che porta a non acquistare questo tipo di bene se si debbono consumare gran parte delle proprie risorse. Se invece esiste la possibilità di usufruire dello stesso tipo di bene per il tempo strettamente necessario, la cifra da spendere sarà di gran lunga inferiore ed io potrò destinare il resto del denaro ad altre necessità della mia vita. Non all’acquisto di un’automobile».

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Mi fa un esempio concreto?
«A San Francisco esiste una piattaforma digitale che attraverso il peer-to-peer consente di noleggiare un’auto privata, ovvero di proprietà di una persona che la destina a questo uso quando non gli serve. Si chiama “Get Around” e il costo è molto più basso non solo di quello praticato da Avis e Dollar, ma anche da servizi come “Zip Car”. In uno studio recente abbiamo visto che quel 10 per cento di abitanti di San Francisco che non possiede un’automobile si sta rivolgendo a Get Around. E allo stesso tempo molti proprietari hanno deciso di mettere a disposizione il loro bene quando non è utilizzato. Scelta molto facile: le statistiche raccontano che negli Stati Uniti un’auto di proprietà viene usata in media un’ora al giorno».

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La sharing economy ha un impatto importante solo nelle fasce di reddito medio basso?
«Non c’è il minimo dubbio che è questa fascia a verificare nella realtà un miglioramento degli standard di vita. Non vale solo per l’automobile: identico risultato quando sei alla ricerca di un qualsiasi servizio che puoi trovare peer-to-peer, come scegliere una casa per una vacanza o una stanza come un appartamento per un viaggio in un’altra città. Inoltre, si può accedere a più servizi con questo sistema, perché se io dispongo di 500 dollari al mese per le mie necessità extra e ne spendo solo 200 per utilizzare un’auto, invece che tutti e 500 per averne una in proprietà, mi restano 300 dollari per altro».

Che influenza ha la sharing economy sul mercato del lavoro e come lo modifica?
«In generale, è destinata a creare più lavoro autonomo e ad aumentare il ricavo per ora di chi decide di aderire. Le piattaforme digitali liberano risorse, nel senso che offrono maggiori opportunità di mettersi in proprio e non fare conto su un datore di lavoro unico, sia esso privato o pubblico. Come tendenza, portano a un aumento del guadagno medio per ora rispetto ai lavori tradizionali. Abbiamo constatato questo tipo di dinamica osservando il funzionamento di “TaskRabbit”, una piattaforma che consente di trovare un idraulico o un falegname, un meccanico o una persona che ti lava la macchina, sapendo che la persona che arriverà da te ha specifiche capacità, e che la spesa finale sarà certa».

Come fa a sostenere che questi tipi di lavoro sono più pagati se passano attraverso piattaforme digitali?
«Basta vedere le statistiche su quanto rende occuparsi di pulire un appartamento o aggiustare un rubinetto che sono pubblicate dagli uffici del lavoro di grandi città come New York, Chicago o San Francisco e confrontarle con quelle applicate attraverso TaskRabbit».

Come definisce lo status di chi offre i suoi servizi peer-to-peer? Lavoratori precari o piccoli imprenditori?
«Sono piccoli imprenditori, non c’è alcun dubbio».

Dove funziona meglio la sharing economy, nei paesi sviluppati come Stati Uniti od Europa, o nei paesi emergenti e in via di sviluppo?
«Più che i fattori economici sono quelli culturali a decidere dove la sharing economy può funzionare meglio. Non c’è dubbio che negli Stati Uniti e in alcuni paesi dell’Europa il servizio di affittare la propria casa o una parte di essa attraverso AirBnB trova un mercato favorevole perché le persone sono disposte a farlo. Ma se si va nella maggior parte delle nazioni dell’Asia, esistono profonde ragioni culturali ad escludere la pratica di affittare il proprio appartamento. In Italia, e soprattutto nelle grandi città, è più facile decidere di farlo perché esiste maggiore confidenza con gli estranei ed in più una organizzazione turistica estesa e rodata. In Germania funziona molto bene l’uso di auto in car pooling da una città all’altra, mentre lo stesso fenomeno è pressoché inesistente in Gran Bretagna, dove il tasso di fiducia che permetterebbe di salire sull’auto di uno sconosciuto è molto basso».

La sharing economy ha trovato fieri oppositori nelle istituzioni, nel sindacato, nelle associazioni di piccoli imprenditori: basta vedere la reazione dei tassisti italiani all’arrivo del servizio taxi peer-to-peer di Uber. L’interrogativo allora si sposta sulle regole: ce ne vogliono di nuove? E chi le deve fare? Devono proteggere l’esistente o lasciare libertà totale di cambiare?
«Non credo che le regole possano essere il modo di risolvere i problemi che il mercato non riesce a colmare. Detto questo, una cornice di regole è necessaria: per esempio, se c’è insicurezza nell’accettare un fenomeno come Uber allora è meglio cominciare a scrivere le regole. Ancora: se chi fa il tassista peer-to-peer si rifiuta di accettare gli handicappati vanno imposti dei comportamenti. Però rendiamoci conto che la sharing economy non è come Google search, è un fenomeno completamente nuovo che non si può pensare di fermare con una barriere di imposizioni. Tutto va impostato pensando che è arrivata la possibilità di fornire e ricevere servizi in modo nuovo. E che il miglior approccio è quello di evitare l’errore di fermare questo sviluppo con un sovraccarico di regolamenti».

Quanto vale la sharing economy?
«Difficile dirlo. Non possiamo comprendere istituzioni come eBay che sviluppa un giro di affari di 75-80 miliardi di dollari, è un peer-to-peer ma non è sharing economy. Dai primi studi posso però azzardare che nei prossimi 5 anni, negli Stati Uniti, la sharing economy potrà valere una percentuale del Pil tra l’uno e il 9 per cento».