Censure, pressioni, minacce. E controlli sulla Rete. Anche in Paesi ?che fanno parte della Ue, come Polonia e Ungheria. Mentre ?la situazione sta ulteriormente peggiorando quasi ovunque, dal Messico all’Egitto

Stampa e democrazia sono indissolubilmente legate. Impossibile che la libertà della prima goda di ottima salute quando la seconda entra in crisi. Difficile che le risposte populiste alla grande crisi democratica di questo inizio millennio non tentino di influenzare, quando non di imbavagliare, notizie e commenti per evitare notizie e critiche contro il proprio operato, non sempre corrispondente alle promesse e ai desiderata di chi ne ha agevolato l’ascesa al potere. E così il mondo occidentale, per la prima volta in mezzo secolo, sta riscoprendo la fragilità di una stampa super partes o, più spesso, di parte singolarmente ma pluralista nel suo insieme.
Ingrandimento
Stampa e opinione pubblica, ci resta solo la post-verità
17/1/2017

Nel Vecchio Continente è stata l’Ungheria di Victor Orbán, l’euroscettico populista ante litteram a prendere di punta per primo i giornalisti indipendenti e critici verso qualsiasi accentramento del potere. Cominciò con l’online, con personaggi innovativi come Saling Gergo, ex responsabile delle notizie del più grande sito indipendente ungherese, Origo: lui e il suo team furono tra i primi ad essere mandati a casa dall’editore per motivi politici. Poi, passo dopo passo, tutti i media critici sono stati svuotati di uomini e contenuti, complice lo scudo della crisi economica, fino ad arrivare alla chiusura, lo scorso mese, di Népszabadsag, il principale quotidiano di opposizione, acquisito da uno dei più grandi gruppi editoriali ungheresi solo pochi mesi prima.
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Asli Erdogan: «La mia Turchia senza parole»
17/1/2017

Nella vicina Polonia una proposta di legge del partito di estrema destra al governo, “Legge e Giustizia”, che avrebbe pesantemente ridotto i margini di manovra dei giornali, favorendo soltanto la stampa patriottica e cattolica, è stata bloccata da manifestazioni di piazza la scorsa estate. E tuttavia i gruppi editoriali non allineati col governo - un caso tra tutti è quello del principale quotidiano nazionale Gazeta Wyborcza - sono stati indeboliti economicamente con una massiccia deviazione degli investimenti pubblicitari verso media amici. Non solo. Poco prima di Natale duemila persone sono tornate in piazza per protestare contro la riduzione della stampa parlamentare, soprattutto quella discorde. A dimostrazione che giornalisti e libertà di espressione rimangono sotto scacco.
Diritti umani
Human Rights Watch: "In Egitto con al-Sisi la società civile è a rischio estinzione"
16/1/2017

Intanto negli Stati Uniti, a pochi giorni dal suo insediamento, Donald Trump, il populista per eccellenza, formalmente difensore dell’America contro lo strapotere economico di Pechino, incontra Jack Ma, che non solo è il miliardario cinese più famoso del mondo, ma soprattutto è un super consigliere del presidente cinese Xi Jinping e il volto della comunicazione online di Pechino. Se la sua Alibaba riuscirà a spalancare il mercato cinese a un milione di piccoli business dell’America rurale, sarà difficile che Trump si metterà davvero di traverso all’espansione commerciale di Pechino, che si intrometterà sulla mancanza di una stampa indipendente locale o che farà problemi sulle enormi limitazioni che la stampa americana subisce in Cina. Senza contare che proprio Trump, futuro leader del Paese che una volta era considerato la Mecca della libertà di espressione, ha già espresso pesanti critiche verso i giornalisti o i comici che gli contestano i comportamenti poco rispettosi dei valori democratici americani. Alcuni di loro stanno cedendo alle lusinghe e alle minacce. I vertici di Condé Nast, una delle società media più potenti d’America, e i direttori dei suoi principali giornali, da Vanity Fair al New Yorker, hanno organizzato un incontro con Trump a porte chiuse, attirandosi forti critiche da parte dei gruppi editoriali non disposti a rinunciare alla propria libertà di manovra.

E se in Europa, con la peculiare eccezione dell’Italia dove la criminalità organizzata minaccia fisicamente i giornalisti scomodi, si tarpano le ali alle voci scomode con il tratto di una penna influente, ai suoi confini si utilizzano con rafforzata frequenza ben altri metodi repressivi.

Sulla sponda meridionale del Mare Nostrum il 2015 è passato alle cronache come l’anno in cui il dittatore Abdel Fattah Al Sisi, autore del colpo di Stato contro il governo (democraticamente eletto) dei Fratelli musulmani, ha spedito in prigione il maggior numero di giornalisti nella storia dell’Egitto. Come ha insegnato all’Italia il drammatico caso del ricercatore Giulio Regeni, non tutti riusciranno un giorno ad uscirne. Sei sono già morti. Non contento, e onde evitare probabili rivolte future, Al Sisi ha poi istituito a fine anno scorso il “Consiglio supremo per la stampa e i media”, il cui capo è nominato direttamente da lui e ha il potere di revocare le licenze editoriali, scegliendo a piacere quali media possono continuare a trasmettere o pubblicare e quali dovranno chiudere.

Ma l’Egitto non è l’unico Paese che si è aggiunto in anni recenti alla storica lista dei tre Paesi peggiori per la libertà di stampa - Cina, Corea del Nord e Iran. Sul triste ma sempre più affollato podio sono saliti anche il Messico dei cartelli della droga, la Russia di Putin e la Turchia del sultano Erdogan. In tutti e tre i paesi fare il giornalista vuol dire rischiare la vita. Ogni giorno.

Solo in Messico negli ultimi dieci anni sono stati uccisi ben 23 giornalisti. Secondo Marcila Zendejas, un’attivista dei diritti umani, oltre la metà degli attacchi contro i reporter arrivano direttamente dai vari livelli di governo locale, sindaci o governatori, spesso in affari con i trafficanti di droga dei grandi cartelli, a spese della popolazione locale. Le uccisioni sono violente, vere e proprie esecuzioni che i politici locali si affrettano a giustificare incolpando il giornalista ucciso di avere stretti legami con la criminalità. Celebre nel male è diventato Javier Duarte, governatore dello Stato di Veracruz, uno dei più cruenti per i giornalisti, costretto a dimettersi l’anno scorso e poi sparito nel nulla dopo l’inizio di un’indagine federale per peculato e corruzione.

Anche ad Oriente l’ascesa di Erdogan e delle sue ambizioni assolutistiche è andata di pari passo con l’aumento del numero dei giornalisti arrestati: 120 solo dal luglio scorso, quando è fallito un tentativo di colpo di Stato contro di lui. Ormai la Turchia, allieva del metodo Al Sisi, è riuscita a superare perfino la Cina, da sempre al vertice della classifica dei paesi più repressivi, nel numero di giornalisti annualmente incarcerati. Oltre un centinaio di radio e televisioni minori hanno dovuto chiudere i battenti. E, con l’arresto di dieci giornalisti e del suo amministratore delegato, tirato fuori da un aereo in partenza dalla polizia di Istanbul, anche Cumhuriyet, l’ultimo grande giornale indipendente turco, ha chiuso i battenti con la fine del 2016. Metafora perfetta di un anno in cui potere e politica hanno inflitto un grave colpo alla stampa di mezzo mondo. Senza che i cittadini se ne siano davvero resi conto. Come se la libertà di stampa fosse un bene di consumo. E non, invece, una conquista quotidiana a tutela della libertà con la “L” maiusco la.