Secondo i rapporti dei maltesi, le telefonate dimostrano come ci siamo tenuti lontani dal barcone affondato. Ma i magistrati romani hanno ignorato i documenti e non hanno voluto ascoltare nessuno dei sopravvissuti di quell'11 ottobre, quando morirono 60 bimbi nel Mediterraneo. E ora si prepara l'archiviazione dell'indagine

Un segreto accompagna da quattro anni gli accordi tra Italia e Malta su immigrazione e sbarchi. Sette giorni prima dell’inizio dell’operazione Mare Nostrum, la nave Libra, il pattugliatore allora comandato dal tenente di vascello Catia Pellegrino, il volto simbolo della Marina militare, non ha risposto alle continue e disperate richieste di soccorso inviate via radio sul canale di emergenza dall’equipaggio di un aereo militare maltese. La mancata risposta, secondo un rapporto custodito dalle forze armate della Valletta, avrebbe impedito il salvataggio tempestivo di 480 profughi siriani in fuga da Aleppo e da altre città: dopo cinque ore di inutile attesa, per l’affondamento del loro barcone che la notte precedente era stato preso a mitragliate da una motovedetta libica, 268 persone sono annegate, tra le quali almeno sessanta bambini. Per tutte quelle cinque ore, la Libra era a meno di un’ora di navigazione.
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È il naufragio che ha cambiato la storia del Mediterraneo: proprio i morti di quel pomeriggio, l’11 ottobre 2013, una settimana dopo l’altra strage a Lampedusa, hanno convinto il premier Enrico Letta a ordinare l’intervento unilaterale italiano per intercettare tutti i barconi al largo della Libia. E da allora, prima con Mare Nostrum poi con le organizzazioni umanitarie (le Ong), l’Italia si è fatta carico da sola di assistere oltre seicentomila uomini, donne e bambini raccolti dal mare. Anche quelli destinati a Malta. In altre parole, la storia recente sarebbe potuta andare diversamente e non ci sarebbe stato bisogno di missioni come Mare Nostrum, se quattro anni fa gli ufficiali della Libra (e del comando in capo della Marina militare italiana) avessero fatto fino in fondo il loro dovere.
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Il retroscena, scoperto dall’Espresso, è confermato da fonti qualificate delle Armed Forces of Malta, le forze armate dell’isola, che riuniscono in un solo corpo difesa e soccorso. E che nell’operazione di quel giorno hanno invece fatto tutto il possibile per salvare i passeggeri del peschereccio. Catia Pellegrino, 41 anni, famosa per essere stata la prima donna a comandare una nave da guerra italiana e testimonial della Marina sotto il comando dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi durante i mesi di Mare Nostrum, non smentisce il fatto. Ma il suo legale spiega che non può rispondere alle nostre domande: «In ragione dell’esistenza di un procedimento penale relativo alla nota vicenda», scrive l’avvocato Gianluca Mongelli, «nonché in ragione delle facoltà derivanti dalla mia posizione di difensore di fiducia del comandante Pellegrino, la stessa non potrà fornire alcuna informazione specifica né personalmente, né per il mio tramite, relativamente ai fatti che, ribadisco, sono oggetto di procedimento penale».

Quella raccontata nel rapporto delle Armed Forces of Malta è una storia molto diversa dalla versione riferita ai magistrati della Procura di Roma dagli ufficiali italiani. Una storia confermata dalle registrazioni di quel giorno, che non sono mai state ascoltate. La mancata risposta della Libra alla richiesta diretta di intervento sul canale di emergenza, una violazione delle norme civili e militari di soccorso in mare, non appare infatti negli atti delle indagini. Quando l’aereo ricognitore maltese, un grosso bimotore a elica Kingair B200, raggiunge il cielo sopra il barcone sono le 16 dell’11 ottobre. La prima chiamata dal peschereccio arriva alla centrale operativa di Roma della Guardia costiera alle 12.26. L’sos lo lancia uno dei tanti medici a bordo, Mohanad Jammo, in fuga dalla Libia con la moglie e i tre figli piccoli. Sanno di essere ad appena 60 miglia da Lampedusa (dove due motovedette della Guardia di finanza resteranno tranquillamente ormeggiate in porto fino a naufragio avvenuto).
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Ma i siriani sono entrati nell’area di ricerca e soccorso di competenza di Malta. E, anche se l’isola-Stato è molto più lontana da loro, a 118 miglia, l’ufficiale di servizio della Guardia costiera italiana passa l’intervento ai maltesi. Lo fa seguendo questa curiosa procedura: non comunica che la barca sta affondando e che l’acqua nello scafo ha già raggiunto il mezzo metro (telefonata delle 13); riferisce al dottor Jammo la falsa informazione di essere più vicino a Malta che a Lampedusa (telefonata delle 13.18); pur rappresentando fino a quel momento l’autorità di coordinamento dei soccorsi, verifica in ritardo che Malta non ha ricevuto da Roma la formalizzazione della richiesta di intervento via fax (telefonata delle 14.35); non rivela mai ai maltesi l’esatta posizione di Libra, che è in pattugliamento a una decina di miglia dal barcone e ha un elicottero a bordo, con cui avrebbero già potuto valutare in pochi minuti di volo le esatte condizioni di pericolo. Le informazioni incomplete che trasmette l’Italia inducono la centrale operativa maltese a trattare il caso all’inizio come una semplice segnalazione di avvicinamento di un barcone carico di profughi. Non come una chiamata di emergenza.

Il cielo è sereno. Il mare quasi calmo. Il sole ancora alto. La P61, la motovedetta maltese più vicina, è in pattugliamento a 71 miglia a Sud dell’isola. Dalle 14 ha ricevuto l’ordine di avvicinarsi al punto e tenersi a disposizione, ma è ancora a quasi quattro ore di navigazione. Il dottor Jammo, su invito della Guardia costiera, comincia a telefonare anche a Malta. E la centrale operativa decide di mandare il suo aereo ricognitore a verificare la situazione. Alle 16 dopo oltre mezz’ora di volo, l’equipaggio del Kingair inquadra la superficie del mare con la telecamera di bordo e vede subito che il barcone è sovraccarico di persone ed è molto instabile: sbanda e si inclina pericolosamente su un fianco e sull’altro per l’acqua che sta imbarcando. Ma soprattutto, dall’aereo, scoprono che da Roma la Guardia costiera ha tenuto nascosta la presenza lì vicino di una nave costruita e attrezzata proprio per i soccorsi in mare. Leggono sulle sue lamiere grigie il distintivo ottico: P402. Riconoscono che è la Libra. Hanno già collaborato molte volte nei soccorsi. Hanno anche comunicato direttamente. Così dall’alto i maltesi fanno la cosa più normale per qualunque equipaggio addestrato a navigare o volare in mare aperto: chiamano la nave italiana sul canale 16 Vhf marino, quello riservato alle comunicazioni di emergenza. E la Libra non risponde.

Dal Kingair richiamano e sempre via radio spiegano il perché della loro richiesta. Nel rapporto è scritto che dicono più volte alla Libra che il barcone è «overcrowded and very unstable», sovraccarico e molto instabile. E per questo ha bisogno di aiuto immediato. Volano in circolo sul pattugliatore e sul peschereccio. Le due imbarcazioni sono così vicine che dall’alto possono vederle in un solo colpo d’occhio. Sempre nel rapporto hanno scritto che chiamano e richiamano la Libra per due minuti senza sosta. Sperano che il canale 16 gracchi finalmente quello che si aspettano: «P402, roger». Due minuti di chiamate di emergenza sono un tempo lunghissimo. Ma, sempre secondo il rapporto maltese, la Libra continua a ignorare la chiara e dettagliata richiesta lanciata dai militari sull’aereo. Non è solo uno sgarbo a una forza armata alleata e a uno Stato dell’Unione Europea e della Nato: Malta in quel momento rappresenta anche l’autorità di coordinamento e comando della missione di ricerca e soccorso in mare.

Dal ricognitore chiamano allora la loro centrale operativa, chiedendo di dire a Roma che è necessario dare subito istruzioni dirette alla nave italiana. Non c’è più tempo da perdere. Solo la Libra può salvare quei bambini. Adesso tocca all’ufficiale di servizio, il maggiore Ruth Ruggier, la prima donna ufficiale di Malta. Fa mandare i fax formali di richiesta. E telefona alla Guardia costiera. Spiega che la motovedetta maltese è ancora lontana. Che la nave commerciale più vicina è addirittura a 70 miglia. Ma dal comando in capo della Marina militare, il Cincnav, dicono no. E la Guardia costiera si limita a riferire. L’ordine preciso lo pronuncia il capitano di fregata Luca Licciardi, capo sezione attività correnti del Cincnav. Con queste parole: dice che la Libra «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi e che deve tenersi a una distanza «tale da poter vedere se sta pisciando in un cestino di frutta ovvero se sta lanciando missili balistici» (telefonata delle 15.37). L’ordine viene poi girato a Catia Pellegrino con la telefonata delle 15.41. A quell’ora al Cincnav sanno che Malta ha inviato soltanto una lenta motovedetta. Non si aspettano l’arrivo dell’aereo.
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L’equipaggio del Kingair non può sentire le conversazioni tra gli ufficiali italiani. Ma lassù sono ugualmente infuriati e disperati. Non rispondere alle chiamate dirette sul canale 16 è un fatto grave. Quindi per tre volte mirano il loro puntatore laser sulla Libra. Zoomano la telecamera al massimo ingrandimento. E per tre volte scattano la foto corredata di data, ora, velocità e punto geografico. Vedono che il pattugliatore, invece di avvicinarsi, si è addirittura allontanato. La comandante Pellegrino fa percorrere alla sua nave un arco di circonferenza, mantenendosi a una distanza costante di diciannove miglia dal barcone. I motori al minimo. La prua in navigazione nella direzione opposta a quella del peschereccio che sta affondando.
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I piloti inquadrano e scattano. La targa della Libra in evidenza: P402. È la prova che documenta la fuga degli ufficiali italiani dal dovere di soccorrere quasi 500 innocenti alla deriva. Alle 16, alle 16.30, alle 17 sono ancora tutti vivi. Sia gli adulti, sia i cento bambini a bordo. Il peschereccio si rovescia alle 17.07. Alla prima chiamata sul canale 16 Catia Pellegrino ha ancora più di un’ora per salvarli o perlomeno per mitigare le conseguenze del naufragio. La P61 arriverà in zona prima degli italiani, ma soltanto alle 17.51. La Libra addirittura alle 18: cinque ore e 34 minuti dopo la prima telefonata dal barcone. Appena 212 persone verranno portate a terra vive, insieme con 26 cadaveri: il resto delle famiglie e dei bambini, compresi due dei tre figli del dottor Jammo, sono ancora lì, in fondo al mare.

Forse sulla Libra non stavano ascoltando il canale 16? I militari maltesi contattati dall’Espresso sorridono. Impossibile, dicono. Su tutte le navi militari del mondo c’è un ufficiale addetto alle comunicazioni radio. Non possono non aver sentito. Il canale 16 deve essere costantemente monitorato. È un obbligo anche per le navi civili. Soprattutto se c’è un’operazione di soccorso in atto. La testimonianza maltese coinvolge quindi tutta la catena di comando a bordo del pattugliatore italiano: dall’ufficiale addetto alle telecomunicazioni alla comandante.

Catia Pellegrino è già indagata in due inchieste ereditate per competenza territoriale dalla Procura di Roma. In una è accusata di omicidio con dolo eventuale. Per lo stesso reato è indagato, si apprende ora, anche Filippo Maria Foffi, 64 anni, l’ammiraglio di Mare Nostrum fino al 2016 comandante in capo della squadra navale della Marina, oltre ai tenenti di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, e Antonio Miniero, 42, i due ufficiali della centrale operativa della Guardia costiera che hanno gestito le numerose richieste di intervento via telefono satellitare dal peschereccio carico di bambini e via telefono e fax dall’autorità militare maltese. La comandante Pellegrino è anche indagata, per lo stesso naufragio, in un secondo procedimento per omissione di soccorso con i capitani di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, e Luca Licciardi, 47, sottoposti quel pomeriggio alla catena di comando dell’ammiraglio Foffi, e Leopoldo Manna, 56 anni, capo della centrale operativa della Guardia costiera.
Per tutti loro la Procura di Roma, con atto firmato anche dal procuratore Giuseppe Pignatone, ha comunque chiesto l’archiviazione. I magistrati, per le due inchieste che hanno ereditato da Palermo e da Agrigento, non hanno voluto sentire la testimonianza di nessuno dei sopravvissuti e nemmeno hanno chiesto all’autorità maltese i rapporti sul naufragio. Mercoledì 13 settembre il Gip, Giovanni Giorgianni, dovrà quindi decidere se archiviare le accuse contro gli ufficiali oppure no, sulla base di un’indagine che non è andata oltre le parziali versioni della Marina militare italiana.

«Alla luce di queste nuove prove», commenta l’avvocato delle famiglie, Alessandra Ballerini, che ha presentato opposizione alla richiesta di chiudere le indagini senza nemmeno un processo, «ma anche alla luce degli audio delle comunicazioni già sentiti da noi e dalla Procura, siamo certi che questo caso non possa essere archiviato. Auspichiamo invece che tutti i testimoni possano essere sentiti dalla nostra autorità giudiziaria e possano essere acquisiti tutti gli atti e le comunicazioni che ancora mancano».

Nel verbale di interrogatorio di Catia Pellegrino infatti non compare nessun riferimento alle chiamate di soccorso sul canale 16: «La Pellegrino», è invece scritto nella richiesta di archiviazione firmata dal procuratore Pignatone e da due pubblici ministeri, «ha chiarito il momento in cui ha percepito che il natante con a bordo i migranti era in una situazione di pericolo, fissandolo alle 17.14, ossia quando ha avuto la comunicazione che il natante si era ribaltato». Il rapporto dei militari maltesi e le foto scattate dal loro aereo aprono oggi un buco di un’ora e quattordici minuti nella memoria di quel pomeriggio: lì dentro da quattro anni si nasconde il segreto di una generazione di ufficiali italiani che, dopo essere scappata di fronte al dovere, non ha ancora raccontato tutto quello che sa.