I venti miliardi previsti dalla vendita di aziende pubbliche sono destinati a rimanere quasi tutti sulla carta. Invece le società di Stato aumentano, proseguendo una ormai lunga tradizione politica nostrana

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che adesso pensa di incassare 20 miliardi dalle privatizzazioni, ha 56 anni e all’epoca era già sindaco di Cazzago Brabbia, in provincia di Varese. Perciò quella storia deve per forza ricordarla bene. C’era un tempo in cui lo Stato produceva panettoni, gelati e perfino le caramelle Charms. Poi l’ondata delle privatizzazioni si portò via pure quelle, assieme a Motta e Alemagna.

 

Adesso invece è l’ora dei gianduiotti. Il 27 luglio scorso Invitalia ha rilevato il 25 per cento della Pernigotti. Non si può fare un paragone con la situazione di trent’anni fa, d’accordo. La Pernigotti ha attraversato molte traversie, acquistata dai turchi e poi rilevata da Jp Morgan. E rischiavamo di perdere un marchio storico dell’industria dolciaria. Ma se Invitalia, la società del medesimo Tesoro del ministro Giorgetti, ora amministrata da Bernardo Mattarella (incidentalmente nipote del presidente della Repubblica), ha in pancia una settantina di partecipazioni in imprese private, significa che poco è cambiato nel Dna del nostro Paese da quando lo Stato, nel 1932, decise di farsi imprenditore. Prima per cause di forza maggiore. Poi però la politica ci ha preso gusto, in un crescente anelito a correre in soccorso dei privati. Fin da quando c’erano ancora le macerie della guerra.

 

Bernardo Mattarella,

 

«Enrico, stanotte mi è parsa in sogno la Madonna e mi ha detto che prenderai il Pignone…», avrebbe scongiurato il capo dell’Eni Enrico Mattei, un giorno di fine 1953, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira. Democristiani entrambi, si capivano perfettamente. Il Pignone stava per chiudere e dopo qualche flebile resistenza iniziale Mattei lo rilevò. Fu la prima pubblicizzazione della repubblica. E pazienza se poi quella del Nuovo Pignone è stata anche la prima privatizzazione della repubblica, decisa simbolicamente 40 anni più tardi dal primo governo di Giuliano Amato. La stagione della ritirata dello Stato dall’economia è durata meno di dieci anni. Senza neppure che lo Stato abbia mollato il controllo delle attività più strategiche come Eni, Enel e Finmeccanica Leonardo.

 

E dopo quella breve stagione, nonostante la Madonna abbia lesinato le apparizioni, il vecchio andazzo è ripreso. Come prima, e forse più di prima. Si capisce scorrendo la lista delle partecipazioni di Invitalia nella banca dati di Infocamere, dove compare perfino Vivenda, una ditta di ristorazione collettiva e pulizie fondata dalla Cascina, sigla che fa capo a Comunione e Liberazione. Un regalino da 10 milioni dell’ultimo governo Berlusconi, recapitato una settimana dopo che a Sviluppo Italia, ora Invitalia, arrivasse un amministratore delegato amico della destra: quel Ferruccio Ferranti ora tornato lì come presidente del Mediocredito Centrale.

 

Già, perché lo Stato è rientrato in forze anche nel settore bancario. Se il Tesoro possiede direttamente il 67 per cento del Monte dei Paschi di Siena, Invitalia controlla il gruppo Mediocredito Centrale di cui fanno parte la Popolare di Bari e la Cassa di Risparmio di Orvieto. Per non parlare dell’acciaio. Attraverso Invitalia lo Stato è rientrato in possesso dell’Ilva, e questo già basterebbe per qualificare la società pubblica che nel 2007 Romano Prodi avrebbe voluto chiudere come una specie di nuova Iri.

 

Dario Scannapieco

 

Se non fosse che di nuove Iri ce ne sono adesso addirittura due. La seconda, o meglio la prima, è la Cassa Depositi e Prestiti che il governo di Mario Draghi ha affidato alle cure di Dario Scannapieco. Lì dentro c’è Fincantieri, l’Ansaldo energia e una quota di Saipem. Ma soprattutto attraverso la grande banca del Tesoro lo Stato è rientrato in possesso di Autostrade, ricomprata a peso d’oro dalla famiglia Benetton cui il centrosinistra l’aveva venduta nel 1999. Ceduta in concomitanza con la scalata a Telecom Italia di cui Cdp si ritrova ora a essere il secondo azionista, e con la propria Openfiber è pure in pista per ricondurre nell’alveo pubblico la rete telefonica. Non bastasse, sempre con la banca del Tesoro lo Stato si è riaffacciato addirittura nel mondo delle costruzioni come socio forte di Webuild e di Trevi. Non disdegnando l’espansione nel settore turistico, rinverdendo i fasti della defunta Valtur con il 46 per cento di Hotelturist e il 23 per cento di Roccoforte hotels. Lo Stato costruisce il ponte sullo Stretto di Messina per mandarvi pure in vacanza in Sicilia, pensate che cortesia.

 

Ma non è finita qui, perché c’è il fondo F2I, partecipato sempre dalla Cassa Depositi e Prestiti, che ha aperto ancora allo Stato le porte di una decina di società aeroportuali, ma anche dell’elettricità di Sorgenia e delle residenze per anziani targate Kos-gruppo Cir De Benedetti. E poi il Fondo Italiano d’Investimento, posseduto al 55 per cento dalla banca del Tesoro, che oltre a 23 partecipazioni private ha in portafoglio il 67 per cento di Fly One, controllante dell’impresa aeronautica Mecaer. Misteri del business aeronautico, considerando che lo Stato italiano ha già l’Alenia. Come misterioso, dal punto di vista dei contribuenti, è il rientro dello Stato nel già fallimentare campo del trasporto aereo con Ita Airways.

 

E qui torniamo al leghista Giorgetti e al suo curioso piano di privatizzazioni. Perché sfogliando il recente album di famiglia della destra attuale viene fuori che le privatizzazioni le sono sempre andate di traverso. Dice tutto la violenza dell’attacco politico sferrato dal Movimento Sociale con durissime interrogazioni parlamentari a Mario Draghi. Il direttore generale del Tesoro venne accusato di aver tramato per la svendita delle nostre imprese di Stato con le plutocrazie anglosassoni sul Britannia in quel 1993 che aprì la breve stagione di cui sopra. E la visita al panfilo della famiglia reale inglese non gliel’hanno mai perdonata. Così come hanno sempre accolto con sospetto ogni operazione che prevedesse il ridimensionamento dello Stato. Pronti a sollevare barricate contro la privatizzazione di Poste Italiane «Sarebbe una follia!» (Giorgia Meloni, 24 gennaio 2018). Fulminando con suggestioni complottiste Enrico Letta che da premier voleva privatizzare anche Sace e Fincantieri: «Oggi parte la svendita dei gioielli di famiglia…» (Guido Crosetto, 21 novembre 2013).

 

La sede di Monte dei Paschi

 

Vero è che adesso si potrebbe vendere, per esempio, il Monte dei Paschi di Siena rimesso in carreggiata. A parte però il fatto che capitalizza in borsa 3 miliardi, cifra assai lontana dai 20 ipotizzati, potrebbe comprarlo qualche banca straniera: sarebbe accettabile? La vendita di Ita, d’altro canto, non coprirebbe neppure le perdite accumulate finora. Si è parlato allora delle Ferrovie. Ma, a parte le considerazioni su come funzionano, quale cifra si porterebbe a casa con un eventuale collocamento in borsa, ammesso che risulti politicamente praticabile? Quanto agli immobili pubblici e scartata la vendita del Colosseo, il buonsenso direbbe di piazzare per prima cosa le caserme inutilizzate. Mai nessun governo però è riuscito a farlo, figuriamoci questo.

 

Giorgetti è troppo esperto per non sapere tutto questo, e non immaginare le resistenze che inevitabilmente il principale azionista della maggioranza potrebbe scatenare. Ma la regola non scritta della politica dice che raggiungere l’obiettivo promesso non è importante quanto prometterlo. Anche perché in un Paese dalla memoria così corta tutto si dimentica in fretta. Pure Giovanni Tria, ministro dell’Economia del governo grilloleghista dove peraltro lo stesso Giorgetti era sottosegretario di Palazzo Chigi, aveva previsto cessioni di asset pubblici per 18 miliardi entro il 2019. Ebbene, oltre a non incassare un euro, lo Stato avrebbe speso in seguito una barca di soldi per rimettere in piedi una compagnia di bandiera durante il governo Draghi, di cui ancora Giorgetti era ministro dello Sviluppo Economico. Non proprio uno che passava da lì per caso.