Belle storie
«Da mio padre morto nella strage di Capaci ho imparato che i veri eroi sono gli uomini giusti»
Giovanni Montinaro è figlio di Antonio, il capo scorta di Giovanni Falcone che fu ucciso da Cosa nostra insieme al magistrato, alla moglie e ad altri due agenti di polizia. Per lui, superpotere è sopravvivere all’orrore mafioso
«Tutto ciò che è accaduto di bello dopo le stragi è anche merito delle vittime come mio padre, merito di quei pochi onesti che hanno scelto da che parte stare, per mio orgoglio dalla parte giusta». A parlare è Giovanni Montinaro, figlio di Antonio, capo scorta del giudice Giovanni Falcone che si trovava con altri due agenti, Rocco Dicillo e Vito Schifani nella Fiat Croma blindata sbalzata fuori strada per trecento metri alle 17.57 il 23 maggio del 1992.
L’unica cosa che hanno ritrovato di suo padre, che non aveva ancora trent’anni, è stata una mano: aveva le dita incrociate. Sua moglie Tina pensa che abbia fatto quel gesto scaramantico appellandosi alla fortuna perché se l’aspettava: in fondo quegli agenti «erano uomini, avevano paura».
Antonio Montinaro era un poliziotto pugliese e scelse di fare la scorta del giudice Giovanni Falcone perché sentiva che quell’uomo poteva cambiare le cose, perché sentiva che fosse indispensabile. Era prezioso e come tutte le cose preziose meritava protezione.
Ciò che accadde ad Antonio è storia, ma un attimo prima, quando ancora tutto sembrava possibile, ha compiuto un consueto rituale familiare: ha baciato sua moglie, il figlio maggiore Gaetano di quattro anni e lui, che era il più piccolo, Giovanni, di appena ventuno mesi, a cui aveva dato il nome del suo eroe.
È stata l’ultima volta che ha potuto toccare il suo papà, ma non lo ricorda. Non ha memoria del tempo trascorso insieme, della famiglia riunita attorno a un tavolo, a ridere, a scherzare, il ricordo di una gita al mare, di una discussione perfino per una banalità, per una diversa opinione da difendere, come fanno tutti i figli con i genitori. Non ricorda nemmeno come sia venuto a conoscenza, la prima volta, del perché suo padre non fosse mai più tornato a casa.
È cresciuto facendo i conti con un’assenza che era insieme simbolo di una ferita per l’intero Paese, sapendo di essere il figlio di un uomo ucciso dalla mafia. Nomi, ipotesi di trattative, volti, latitanti, processi, interviste, commemorazioni. Ma lui era solo un bambino e la mafia, per molto tempo, è stata rappresentata nella sua testa come un enorme mostro, come in quei disegni squilibrati e spaventosi che si fanno all’asilo.
Oggi è un uomo, ha raggiunto l’età che aveva suo padre e se torna agli anni immediatamente dopo la strage ricorda che gli adulti lo fissavano, che gli ripetevano di essere orgoglioso e gli ripetevano che suo padre era un eroe. Per Giovanni gli eroi non sono mai stati quelli dei fumetti con i superpoteri, quelli che non muoiono mai, che resistono a ogni imprevisto. Sono gli uomini come suo padre, gli onesti, chiamati da molti eroi.
Giovanni non smette di ricordare suo padre. Le mafie si cibano di dolore e silenzio, ecco perché le storie sono temute dalle organizzazioni criminali. Le storie allenano la memoria, ti fanno capire da che parte stare, formano la coscienza civile, tengono accesa una luce. Le storie delle vittime e dei loro familiari non sono mai belle. Ma bellezza è mostrare di cosa sia capace un uomo giusto. Il loro sacrificio dimostra alle mafie che la vera bellezza sopravvive perfino alla morte.