«Gli italiani qui in Libia non li vogliamo più. Meglio i turchi che ci danno le armi»

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La colonizzazione prima e le giravolte diplomatiche dopo aumentano l'insofferenza dei libici nei nostri confronti. La quinta puntata del diario da Tripoli alla vigilia dell'anniversario della rivoluzione

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«È una giornalista, italiana».

«Italiana?»

«Che è venuta a fare?»

«Dice che è venuta a riscattare i terreni del nonno, le terre di Tarhouna».

Risate.

La storia dei rapporti tra l’Italia e la Libia è fatta anche di questo. Una manciata di parole ereditate dai nonni, comunemente riferite alle automobili o al gas. Sterzo qui si dice sterzo. Semaforo si dice semaforo. E carburante si dice carburante.

Anche se poi carburante ha tante altre lingue per essere detto. È una storia di lasciti e rimozioni. Nell’ufficio del sindaco della municipalità di Salah al Din, Abdulrhaman al Hamdi entra Ahmed, è originario di Tarhouna, le milizie della città supportano Haftar, lui è scappato e però si guarda le spalle, perché da dove vieni determina quanto sospetto ti cada addosso, a quante minacce tu sia sottoposto, e se qualcuno ti consideri una spia.

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Ahmed ha un lungo cappotto nero che si accompagna a un’aria vagamente luttuosa, gli si accende il viso sull’aprirsi di un ricordo. La famiglia dei vicini, la signora Ada, l’olio, davano sempre l’olio a noi, dice in un italiano stentato, frammento di un pezzo di storia che ci accomuna. Poche parole che sono un collegamento, un ponte. Poi andati via, dice e il viso così come si era acceso, riappare mesto.

Quando nel 1969 Gheddafi ha preso il potere, in Libia, gli italiani stabiliti lì da generazioni coloniali hanno cominciato ad andare via. Nei primi quattro mesi dopo la conquista del potere del giovane rais si stima che furono ottocento gli italiani a partire in tutta fretta. Poi, l’estate successiva, quella del 1970, il discorso anti-italiano del nove luglio e due settimane dopo il decreto ufficiale di espulsione. Gli italiani allora erano più di quarantamila, in poco tempo ne rimasero meno della metà.

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Gheddafi confiscò terre e beni, ricchezze e proprietà. Indesiderati e messi in fuga, gli italiani ebbero l’ordine di non usare i propri conti, non ritirare i propri risparmi. Tutto tornava nelle casse di Tripoli, tutto spettava alla Libia. Gheddafi confiscò quarantamila ettari di terra, duemila case, cinquecento tra negozi e imprese, per un valore stimato al 1970 di duecento miliardi di lire. Gli italiani espulsi cominciarono a tornare indietro senza visti e documenti, rifiutati, reietti, piangevano - ricordano a Tripoli oggi - andavano via in nave senza niente e rinnegati, diretti verso le coste siciliane o quelle campane.

Ad aspettarli non c’erano parenti impazienti di riabbracciare i propri cari ma campi profughi per essere smistati, indifferenza e un po’ di fastidio. Come se a tornare a casa fosse un pezzo di storia con cui non si vuole fare i conti. Una storia di esecuzioni di massa, campi di prigionia, violenze e schiavitù. Da cui, la rimozione.

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La sensazione, raccontano gli italiani espulsi ancora in vita, era di essere tornati, meglio cacciati e rimpatriati, da sconfitti. Gheddafi rispediva indietro il lascito coloniale, la sua era la punizione esemplare per i crimini subiti. Le chiese a Tripoli diventavano moschee, Castelverde ritornava a chiamarsi Garabulli, i villaggi e le città che erano state ribattezzate con i nomi delle famiglie di coloni riprendevano il loro nome, così Sidi Said, sulle montagna a sud di Tripoli o Sidi Masr, in città, dove un tempo gli studenti erano più italiani che libici.

Il regime rispedì indietro anche le salme degli ex coloni e si faceva spazio ad altri italiani, quelli delle ditte specializzate, delle costruzioni e certo, del gas. Carburante, carburante. Era una terra difficile, raccontavano gli italiani una volta rimpatriati, arida, secca ingrata. Sì, proprio così, ingrata, dicevano gli ex coloni. Eredi di chi aveva conquistato con la forza. Tornarono con le tasche vuote, come i ragazzi che oggi partono dalle coste tra Tripoli e Misurata.

Gli uomini di Gheddafi avevano strappato documenti di identità e certificati di residenza. Italiani senza più un nome, clandestini si direbbe oggi. Attraccavano in Italia e venivano smistati in prefettura, schedati e trasferiti nei campi profughi. Lo stato aveva preparato materassi e cinquecentomila lire a famiglia. Qualcuno li chiamava fascisti, al ritorno, e diceva che avevano fatto la bella vita in Libia e ora erano tornati a casa a rubare il lavoro ai veri italiani. Nella competizione nazionalista c’è sempre qualcuno più italiano di te.

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Oggi quando si parla di italiani, che sia al fronte o negli uffici governativi, la reazione è sempre la medesima: dove eravate dieci mesi fa? Dove eravate mentre morivano i nostri ragazzi? Italiani, basta italiani. Meglio i turchi, almeno loro ci mandano le armi. Che, dicono al fronte, le guerre non si vincono al tavolo di Berlino, si vincono con i mezzi antiarei. E infatti il film di questa guerra è cambiato da quando sono cambiati i protagonisti.

Nasr Abuzeian è di Misurata, ha combattuto la guerra contro l’Isis nel 2016 ed è stato nominato capo dell’unità antiterrorismo creata dal Governo di Sarraj alla fine del conflitto, ora combatte per difendere Tripoli, e con i suoi uomini controlla il fronte di Wadi Rabia. Ha il tono teso, scostante. Non ci sono modi che non siano bruschi per dire: non siete più i benvenuti, non è più come prima.

Per dire che la diplomazia ha fallito, per dire: cosa mi chiedi, giornalista italiana, mentre arrivano le foto del tuo Ministro degli Esteri che sorride seduto accanto al Generale Haftar altrettanto sorridente e compiaciuto mentre le sue forze armate bombardano l’unico aeroporto funzionante della capitale e nove razzi colpiscono il quartiere di Salh al Din, case civili, uccidendo una donna e ferendo altre dodici persone? Cosa mi chiedi?

Se c’è il cessate il fuoco? Non c’è.
Se chiediamo armi? Sì, le chiediamo.
Se ci fidiamo di voi? Non più.

E sale alla guida di un mezzo militare, vieni. E per chilometri case abbandonate, case civili, schegge di mortai, buchi sul soffitto, la lista dei morti e dei feriti, saracinesche abbassate di negozi che non riapriranno perché distrutti, l’odore di marcio, del marcio che prendono i cadaveri in decomposizione, acre, sono animali mi dice. Qui c’erano fattorie, gli animali tutti morti, pure loro. C’è un aggredito e c’è un aggressore, scandisce severo prima di congedarmi frettolosamente. E il 17 Febbraio non c’è niente da festeggiare, ci sono solo altri morti da commemorare. Poi se ne va, senza un saluto, dandomi le spalle.
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Il quartiere di Salah al Din è un quartiere residenziale, popoloso, nella parte meridionale di Tripoli, il fronte è vicino. I colpi rimbombano. Ieri mattina il primo mortaio è caduto su una casa dall’intonaco rosa, i vetri della finestra della cucina frantumati, una scheggia ha colpito una donna, in testa. Morta sul colpo. Sono seguiti altri otto colpi. Abitazioni civili, tutte. E a sera, quando si contano i razzi e i feriti, qualcuno si nasconde, qualcuno cammina rasente i muri perché non si sa mai, qualcuno impacchetta un po’ di vestiti e se ne va.

Come Ali, quando arrivo davanti casa sua lui e la sua famiglia stanno per andare, il bagagliaio della macchina riempito di buste e sacchi, stavano cenando, e poi il colpo. Ali trema, non lo puoi capire, non la puoi capire la paura se non la provi.
Si muore così, oggi a Tripoli, e chi resta scende in strada a mostrare agli stranieri, anche a quelli indesiderati, i segni delle schegge sui muri. E a cercare le parole, che non sono mai puntuali, per dire la paura dei bambini, la notte.

Quella paura lì, la paura di morire.
Resti qui, non te ne vai?
E dove, nowhere to go.
Nessun luogo dove andare.


Anche casa di Sadik è stata colpita. «Meno male che mia moglie non stava cucinando», dice. «L’ho chiamata per dire che avrei pranzato in cantiere e lei era in salotto. Di solito a quell’ora è in cucina, per me e i ragazzi». Quell’ora è mezzogiorno, l’ora dello schianto, la cucina distrutta, i vetri in frantumi, pezzi di muro che cadono giù e il caso, che l’ha tenuta in vita. Su una parete adiacente alle scale Sadik e i suoi figli radunano le cose intatte, prima di andare via.

Italiana? Mio padre lavorava con gli italiani, dice indicando una cornice che arriva da un altro tempo, da un’altra storia. Poi a Tripoli fa buio. È giovedì, vigilia del giorno di festa. Qualcuno si sposa, nastri rossi e il rumore dei clacson di chi festeggia, e il suono dei fuochi d’artificio per un po’ si confonde con l’eco dei combattimenti. I colpi dei razzi, questo esce, questo entra.

Chissà cosa ha colpito.

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