Il primo è stato ucciso e torturato dai servizi segreti, il secondo è detenuto da 240 giorni per aver pubblicato su Facebook dei post considerati contrari ad Al Sisi. Ma sono due personaggi scomodi per gli affari

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«Con l’Italia c’è un’esemplare collaborazione», assicura l’ambasciatore egiziano Hisham Badr al termine della cerimonia in cui tre grandi aziende italiane, Eni, Snam e Saipem, entrano nel comitato consultivo del forum che avrà sede al Cairo e si occuperà di rafforzare la cooperazione nel campo del gas. È accaduto pochi giorni fa ed è il segno che il dialogo energetico tra governo egiziano e italiano procede a gonfie vele. Del resto anche le fregate stanno già salpando verso le Piramidi. Amicizia e prosperità al servizio di interessi comuni, quelli che latitano davanti a Giulio Regeni e Patrick George Zaki. Due giovani calpestati nella loro disarmata vulnerabilità e stritolati dalle mani di un potere, quello di Abd al-Fattah al-Sisi, che limita la libertà delle persone, reprime il dissenso, fa scomparire gli oppositori.

Regeni è stato torturato e ucciso dai servizi segreti egiziani ed è stato chiaro fin dall’inizio. Una gerarchia di ferocia e omertà l’ha costretto a un calvario e ha messo subito in moto la macchina dei depistaggi: la macabra messinscena organizzata per dare la colpa a una banda di balordi; i video registrati nella metropolitana la notte della sparizione restituiti, dopo lunghe trattative, frammentati e inutili; le celle telefoniche negate perché al Cairo si sa è prioritario tutelare la privacy.

Il risultato è che dopo oltre quattro anni e dodici incontri tra la procura di Roma e quella egiziana è stallo e l’ultima volta, in videoconferenza, il procuratore generale Hamada Al Sawi si è persino lanciato in una sequela di contro-domande per offendere la memoria del giovane ricercatore. Provocazioni continue, come l’aver restituito un paio d’occhiali, il portafoglio e un orologio facendo credere che fossero di Regeni. Erano solo «cianfrusaglie», hanno amaramente commentato i genitori.

L’Egitto tace anche in merito alla rogatoria partita nell’aprile 2019. Chiede informazioni su cinque uomini dei servizi di sicurezza e pone dodici quesiti, alcuni emersi da importanti testimonianze come quella del keniota che ha ascoltato un poliziotto della National Security raccontare di aver partecipato al sequestro o quelle molto attendibili di un testimone individuato nel corso delle indagini difensive dall’avvocato della famiglia Regeni. I magistrati italiani Sergio Colaiocco e Michele Prestipino hanno poi specificato che «per consentire la prosecuzione delle indagini preliminari», servono le generalità complete dei cinque indagati per il sequestro. Colonelli, maggiori e un generale devono eleggere domicilio in Italia, un passaggio tecnico ma fondamentale. Nulla da fare, resta solo un silenzio assordante. Tanto che la Procura di Roma a dicembre, quando scadono i termini dell’indagine preliminare, dovrà decidere in solitudine se chiedere il rinvio a giudizio anche se la mancata notifica degli atti potrebbe rappresentare un problema per lo svolgimento del processo.

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«Da parte nostra c'è la forte volontà di conseguire risultati definitivi nell'inchiesta sull'omicidio Regeni», aveva assicurato il presidente Al-Sisi. Di più: «Giulio è uno di noi». E invece il ritorno dell’ambasciatore Giampiero Cantini, considerato una resa sulla verità nel bel mezzo delle ferie agostane, e il susseguirsi di visite governative al cospetto del generale-dittatore non ci hanno restituito risposte ma hanno solo aumentato i profitti delle relazioni economiche. Anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio chiarisce la linea: «l’ambasciatore non si ritira perché è con i contatti diplomatici che si ottengono risultati». Ne è meno convinto Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla morte del giovane friulano: «i risultati sono stati insoddisfacenti. Ci sarà un momento in cui il governo sarà costretto a decidere».

Dovrà prendere coscienza che obbedendo ai dittatori non si fa l’interesse nazionale. Stabilire che rapporti tenere con un paese dove negli ultimi giorni sono state imprigionate quasi trecento persone, più di 50 minori, che considera il social TikTok un pericolo per la moralità. Dove si muore nelle mani dello Stato o si scompare inghiottiti nel buio.

Arresti, condanne e torture sono ormai prassi comuni. A migliaia sono finiti in carcere, “prigionieri di coscienza” come Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna. Da 240 giorni è rinchiuso nel maxi complesso carcerario di Tora alle porte del Cairo. Accusato, dopo aver pubblicato dei post considerati antiregime, di “incitazione alla protesta e al terrorismo”. Pochissime le visite permesse, censurate molte delle lettere spedite e ricevute, una detenzione preventiva che viene prolungata di volta in volta. Il 26 settembre è saltata l'udienza, forse ci sarà il 7 ottobre. La giustizia usata per sfinire la rete del dissenso.

«Zaki paga il prezzo del suo attivismo per i diritti umani» spiega Riccardo Noury di Amnesty International che insieme a una rete di associazioni, studenti, comuni e cittadini continua a chiedere la sua liberazione.

Per il regime però ogni appello dell'Italia è considerato un'indebita ingerenza. L’Egitto mostra i muscoli, tanto che l’ambasciata a Roma si è rifiutata persino di accogliere le oltre 150mila firme raccolte a sostegno della richiesta di scarcerazione.

Zaki spera di poter raggiungere presto i suoi colleghi, di frequentare di nuovo l'università.

«Sto bene, un giorno tornerò libero e tornerò alla normalità e ancora meglio di prima», ha scritto in una lettera alla famiglia. I suoi genitori, come quelli di Regeni, continuano con forza e dignità a chiedere risposte. Insieme a loro si stringe una comunità che si ribella al mancato rispetto dei diritti umani e all’omertà. Perché il complice più stretto e efficace di un regime che si scaglia su prede indifese è il silenzio.