Almeno quattromila camici bianchi che hanno già svolto il tirocinio e potrebbero aiutare nell'emergenza, non possono esercitare perché non hanno ancora fatto l'esame di stato a crocette. Una formalità posticipata proprio a causa del virus. Mentre in dieci anni diecimila medici hanno lasciato l'Italia per lavorare all'estero

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«Abbiamo bisogno di personale, chiederemo di riassumere medici e infermieri pensionati». «Gli over 65 restino a casa, sono i più a rischio». Queste due frasi sono state pronunciate dall’assessore alla Salute della Regione Lombardia, Giulio Gallera, a meno di 24 ore di distanza l’una dall’altra.

E se è vero che nell’emergenza va bene tutto, Carlo Palermo, segretario del sindacato dei medici Anaao Assomed, fa notare che «sarebbe stato meglio assorbire forze fresche per il Sistema sanitario nazionale, già carente e stressato di per sé e ancor più messo a dura prova dall’epidemia da Coronavirus». Del resto, è lo stesso assessore Gallera ad affermare che gli over 65 sono i più a rischio. Va aggiunto che la categoria più colpita dal virus è proprio quella dei sanitari: il dieci per cento delle persone infette sono medici e infermieri. C’è poi un terzo fattore: in questo momento ci sono quattromila giovani medici in panchina.

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Avrebbero dovuto sostenere l’esame di Stato lo scorso 28 febbraio, un test che avrebbe permesso loro di scendere in trincea. Invece la prova, proprio a causa del Coronavirus, è stata prima rinviata a data da destinarsi, poi sbloccata e ora in attesa che il Miur decida il giorno dell’esame: «È offensivo. Umiliante. Siamo tanti e saremmo pronti a dare una mano. Invece ci lasciano qui nel limbo e richiamano i pensionati. Poi si domandano perché i giovani se ne vanno all’estero», racconta Filippo Medioli, 24 anni, laureatosi in medicina e chirurgia a ottobre, ma con il divieto di indossare il camice bianco finché non supererà il test a crocette per l’ingresso all’albo, «che è per lo più una formalità, visto che il tirocinio l’abbiamo già concluso».

Mentre la sanità lombarda avrebbe bisogno di professionisti, Filippo resta a casa e scalpita: «Tenerci fermi è un paradosso. Io sono di Milano, tanti miei colleghi sono lombardi, veneti, emiliani, siamo medici e sappiamo di avere le competenze per poter dare un contributo importante in questa emergenza. Invece c’è solo la frustrazione di non poter far nulla». E il messaggio istituzionale è «Avanti pensionati», che probabilmente saranno anche luminari della pneumologia, dell’emergenza-urgenza, dell’infettivologia, ma se davvero per combattere il Coronavirus va bene tutto, allora merita uno spazio anche il contributo, la vitalità e l’entusiasmo dei giovani medici.

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La richiamata alle armi dei veterani colpisce anche i dottori e i ricercatori italiani andati all’estero: «È straziante assistere a questa emergenza e sapere che il nostro contributo, la nostra presenza sul campo, lì negli ospedali, avrebbe contribuito a combattere questo virus con più forza. Ma ancora una volta è evidente che si continua a non comprendere le reali motivazioni di questo allontanamento, nonostante il fenomeno dell’espatrio di noi giovani laureati, scienziati e medici sia sotto gli occhi di tutti. C’è chi pensa di poterci richiamare con uno sgravio fiscale, ma non è una questione di soldi», racconta l’immunologa Laura Surace, che lavora all’Istituto Pasteur di Parigi. È stata parte di un gruppo di ricercatori e medici espatriati che lo scorso novembre ha partecipato a un’iniziativa della senatrice Laura Garavini dal titolo “Italiani all’estero: intelligenze senza confini”.

Il problema è grave, perché la loro dipartita (il quindici per cento dei nuovi medici specialisti se ne va ogni anno dal Paese) sta creando un’emorragia senza precedenti: in un decennio sono oltre diecimila i camici bianchi emigrati, circa mille l’anno, che vanno a lavorare per lo più nel Regno Unito e in Svizzera, dove c’è maggiore meritocrazia, più coinvolgimento e dove la giovane età non è considerata un demerito. Invece l’Italia preferisce far fronte a una voragine di 56 mila medici che mancano all’appello puntando sui pensionati e richiamando specialisti da Paesi dove le condizioni di lavoro sono più arretrate delle nostre, come l’Est Europa, il Pakistan. Lo ha raccontato l’anestesista Luca La Colla alla prestigiosa rivista The Lancet.

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La Colla, 35 anni, con in tasca una laurea in medicina al San Raffaele di Milano e una specializzazione in Anestesia all’Università di Parma, è volato negli States, alla Duke University, in North Carolina, perché «nonostante apprezzi il nostro Sistema sanitario nazionale e i suoi principi, è diventato anacronistico e va svecchiato, riformato». E continua: «L’Italia non valorizza il proprio capitale umano. E non c’è solo una questione salariale, ma di riconoscimenti e potere contrattuale. Bisogna far uscire la politica dalla sanità, porre fine ai concorsi pubblici, spesso truccati, e introdurre l’assunzione diretta per colloquio». Il Coronavirus potrebbe davvero rappresentare l’occasione per invertire la rotta. Dovrebbe essere un momento di presa di coscienza istituzionale e collettiva dei danni che il fenomeno degli expat sta provocando al Paese. L’obiettivo deve essere quello di dare fiducia ai giovani, come si sta facendo nel caso degli infermieri. Proprio in Lombardia le lauree triennali in scienze infermieristiche sono state anticipate da aprile alla metà di marzo, per consentire l’immediato ingresso in corsia a migliaia di ragazzi: «La notizia ci ha colto di sorpresa, sto studiando a più non posso e sono pronta ad affrontare l’emergenza», racconta Sara Anghileri, che fra poche settimane sosterrà la tesi di laurea. Il giorno seguente entrerà in un ospedale, con un contratto di lavoro, si rimboccherà le maniche e si darà da fare. Con tutto l’entusiasmo e l’energia di una ventenne.