Kit sierologici sequestrati in tutta Italia. Contestata la mancata registrazione al ministero della Sanità: procedura che però richiede mesi. In Friuli fuorilegge gli esami eseguiti dal vicino Veneto

La ripresa dopo la prima ondata dell'epidemia di covid-19 avverrà senza la necessaria indagine sierologica sulla popolazione. In mancanza di esami certificati, che (forse) andranno a regime soltanto a fine maggio, il Nucleo antisofisticazioni dei carabinieri ha dato il via a una vera e propria caccia ai test offerti dai laboratori privati: denunce, sequestri e segnalazioni all'autorità giudiziaria e sanitaria sono cominciate un mese fa e continuano a pieno ritmo in questi giorni in tutta Italia. Il presupposto legale è che i prodotti offerti o gli esecutori del prelievo o entrambi non siano stati autorizzati. L'eventuale scarsa qualità dei kit e i margini di errore nell'esito (anche del 15 per cento) potrebbero dare false risposte e aumentare i rischi di contagio. Ma nell'assenza di indicazioni precise dal comitato tecnico scientifico del governo e nella mancanza di una vera campagna nazionale di tamponi, a cittadini, imprenditori e commercianti non restano più alternative per riaprire le attività con i dovuti margini di sicurezza.

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Trecento kit sequestrati a Rimini in una parafarmacia. Indagini da Parma e Salerno. Blitz in un laboratorio in Friuli Venezia Giulia. Se funziona ed è attendibile il modello Veneto, dove è stato avviato uno screening di accertamenti sulla popolazione con settecentomila test sierologici comprati dalla Regione, non si capisce perché i consiglieri scientifici del premier e del ministro della Sanità non lo abbiano adottato nel resto del Paese. Gli esami sierologici, eseguiti su un prelievo capillare o venoso di sangue, cercano la presenza di anticorpi che rivelano l'avvenuto contatto del paziente con il virus Sars-Cov-2: le immunoglobuline IgM compaiono per prime, poi generalmente scompaiono; le IgG costituiscono invece la difesa a lungo termine a infezione superata, anche se non si sa ancora per quanto.

Se nel sangue viene rilevata soltanto la presenza di IgG e non di IgM, significa che l'infezione è passata da più tempo e non è recente. Se invece non vengono trovate le due classi di immunoglobuline, per la persona esaminata si aprono due ipotesi: o non è mai entrata in contatto con il coronavirus e quindi non è contagiosa, ma può infettarsi; oppure l'infezione è così recente che non ha ancora sviluppato anticorpi e nemmeno i sintomi, ma potrebbe essere altamente contagiosa. In questo caso, l'infezione in corso deve essere evidenziata dal test tampone, con l'analisi di biologia molecolare sulle secrezioni prelevate dalle vie aeree superiori: anche se non sono pochi i pazienti risultati negativi al tampone e finiti in terapia intensiva nel giro di poche ore. Ecco perché gli esami devono seguire protocolli unici per tutti, con kit scientificamente riconosciuti. Solo così è possibile prevedere l'evoluzione dell'epidemia sul territorio e scoprire dalle immunoglobuline IgG quanti sono in percentuale gli italiani asintomatici, diventati temporaneamente immuni senza mai aver sviluppato la malattia. Il test sierologico, spiegano comunque gli scienziati, non può costituire una patente di immunità: il virus è ancora sconosciuto e i casi di persone guarite che si sono nuovamente ammalate sono tuttora in fase di studio.

Nell'attesa di risposte scientifiche, il ministero della Sanità e il suo Comitato tecnico scientifico si sono affidati totalmente all'Organizzazione mondiale della sanità che sta esaminando la validità di «circa 200 nuovi test rapidi basati su differenti approcci e che sono stati portati alla sua attenzione», informava un comunicato del 19 marzo: «I risultati relativi a quest’attività di screening saranno disponibili nelle prossime settimane. Nel suggerire cautela nell'impiego di test non validati, il Cts è disponibile a fornire opinioni e suggerimenti alle Regioni che lo dovessero richiedere». Da allora, solo il Veneto e in parte la Toscana hanno proseguito il loro percorso autonomo.

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Per questo alcuni imprenditori, dovendo garantire per legge la salute in azienda, si sono dovuti arrangiare da soli. La diffusione di test di vario tipo è cominciata proprio per rispondere a questa necessità. Tra i primi interventi del Nas dei carabinieri, il blitz a metà aprile nella Sbe di Monfalcone in provincia di Gorizia, un gruppo di settecento dipendenti che produce bulloneria per il settore automobilistico, macchine per il movimento terra e impianti industriali. I risultati dell'indagine sono significativi e allo stesso tempo preoccupanti. Le analisi rivelano infatti che l'11 per cento del personale della Sbe ha nel sangue anticorpi positivi al coronavirus: 6 per cento con infezione in corso pur senza sintomi, 5 per cento con infezione superata. L'azienda si è rivolta a sue spese a un laboratorio privato certificato che non ha somministrato un test rapido dai risultati incerti, ma un esame approfondito con prelievo di sangue. Lo stesso kit adottato dall'ospedale materno-infantile Burlo Garofolo di
Trieste per monitorare il personale sanitario. Eppure non basta.

Gli operai vengono convocati a orari diversi. Ma soltanto duecento riescono a sottoporsi al prelievo. Venerdì 10 aprile nel laboratorio autorizzato si presentano i carabinieri del Nas di Udine. Sequestrano i kit perché, secondo il rapporto, sono «sprovvisti di una registrazione presso il ministero della Sanità». Registrazione che richiede mesi, mentre il virus uccide con tempi un po' più rapidi della burocrazia. E dopo l'operazione del Nas, la Regione ha vietato i test. «Ai miei dipendenti dovrò spiegare che esistono persone di serie A e persone di serie C, per le quali la sperimentazione non si deve fare», protesta il proprietario della fabbrica, Alessandro Vescovini, dalla sua pagina Facebook: «Non perché il test non sia ritenuto efficace, ma perché sprovvisto di registrazione e perché, a quanto pare, la Regione non ha ancora espresso un suo parere riguardo i test sierologici. I miei dipendenti, secondo qualcuno, debbono chinare la testa e andare a lavorare sapendo che un loro collega su dieci può avere un'infezione in atto, come è emerso dai primi prelievi».

Il caso è finito in Parlamento con un'interrogazione firmata da Maurizio Lupi e da altri deputati: «Va sottolineato», spiegano, «che gli imprenditori sono penalmente e civilmente responsabili delle positività che dovessero emergere nelle proprie imprese, equiparabili a infortuni sul lavoro».

Il proprietario della Sbe non si arrende: «Ho gia ordinato duecento kit portatili e terminerò entro sette giorni i test in modo totalmente autonomo, quindi senza aver bisogno di nessun laboratorio, allo scopo di continuare a monitorare i miei dipendenti e garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono gli stessi kit sierologici che le autorità sanitarie venete utilizzano per esempio a Portogruaro, a due passi da nostri confini per testare gratuitamente i dipendenti pubblici. Per evitare di pesare troppo sulle strutture regionali, nell'attesa che qualcuno da Trieste decida di ampliare la nostra capacità di fare tamponi, ho poi deciso che per i soggetti positivi invieremo privatamente i tamponi in Germania, dove eseguono, ricordo, 500.000 tamponi alla settimana, in strutture pubbliche e private». Friuli e Veneto sono due regioni governate dalla Lega, ma con un approccio all'epidemia completamente opposto.

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Il commissario straordinario Domenico Arcuri ha affrontato la questione con una gara d'appalto. Il bando se l'è aggiudicato pochi giorni fa la multinazionale farmaceutica americana Abbott, scelta tra settantadue
concorrenti. Lo screening del governo prevede dal 4 maggio 150mila test gratuiti: un campione piuttosto simbolico, visto che dovrebbe rappresentare regione per regione la diffusione dell'epidemia tra sessanta milioni di italiani. L'azienda scelta ha annunciato la distribuzione entro fine maggio in Italia di altri quattro milioni di test. Nulla si sa ancora di come e dove saranno analizzati i prelievi, visto che in molte regioni non si usano macchinari Abbott e i campioni prelevati non possono essere inseriti in altre apparecchiature.

Il ministero della Sanità nel frattempo ha intensificato le operazioni dei Nas. I carabinieri hanno avviato le loro verifiche seguendo la pubblicità su Internet: da giorni il Nucleo antisofisticazioni sta verificando, spiegano negli uffici del ministro Roberto Speranza, «le autorizzazioni amministrative di alcuni laboratori che, nelle ultime settimane, hanno cominciato a pubblicizzare dei costosi esami diagnostici per la ricerca del covid-19. In particolare, due aziende in provincia di Piacenza si offrivano, dietro compenso in denaro, di effettuare dei prelievi ematici anche a domicilio, mentre un laboratorio campano effettuava l’esecuzione di test rapidi, nonostante fosse privo di autorizzazione da parte della Regione. Tutte le strutture sono state diffidate dal continuare le loro attività e segnalate alle autorità competenti per eventuali valutazioni di carattere amministrativo e sanitario».

A tutto questo si aggiunge l'annuncio del commissario straordinario di imporre alle mascherine protettive un prezzo calmierato di 50 centesimi l'una: decisione che sta spingendo molti rivenditori, che all'ingrosso le hanno pagate più del doppio, a sospendere la distribuzione. Così, come due mesi fa, siamo senza protezioni, senza tamponi e nemmeno test sierologici: per la cosiddetta Fase 2 non ci resta che incrociare le dita.

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